Velázquez "pittore dei pittori"

Un racconto di Tomaso Montanari

Nelle serie in quattro puntate qui proposta, Velázquez. L’ombra della vita (2019), lo storico dell’arte Tomaso Montanari conduce lo spettatore nella Spagna del Seicento sulle tracce del “pittore dei pittori”, lo spagnolo Diego Velázquez (1599-1660)
Le puntate, realizzata da un collaudato team di autori di serie artistiche per la tivù (Caravaggio, Bernini, Vermeer), il regista Luca Criscenti e Montanari, entrano nelle capitali europee di Roma, Siviglia e Madrid per indagare musei e collezioni private fin dentro i singoli quadri. Montanari, che qui oltre al soggetto e ai testi, è anche narratore in video, svela in un racconto appassionato, poetico e dettagliato, il percorso artistico e umano di uno dei "giganti" dell’arte del Seicento. 

Nessun artista si è mai accostato al ritratto come ha fatto Velázquez, la forza e la capacità inedita di scavare nel fondo dell’anima umano, attraverso i colori della carne, non trova uguali nella storia della pittura occidentale

Questo aspetto colpi moltissimi artisti, in primis Francisco Goya (1746-1828) tra Sette e Ottocento, e poi i primissimi impressionisti come Édouard Manet (1832-1883), catturato dalla forza di una pittura veloce, di pennellate dense e frammentate da cui emergeva tutta la realtà di un artista definito dal francese, appunto, “il pittore dei pittori”. 
Come un'ossessione forte e travolgente, Velàzquez colpisce anche l'animo del “pittore maledetto” inglese Francis Bacon (1909-1992), autore tra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, di numerose varianti in una serie di tele sconvolgenti che ripropongono il ritratto di "Innocenzo X Pamphilj" del pittore spagnolo per dare forma al  disagio e all’angoscia esistenziale dell'uomo moderno. 

Prima puntata
La materia della realtà

Diego Velázquez de Silva, nasce il 5 giugno del 1599 a Siviglia, nell’estremo lembo meridionale d’Europa della regione Andalusia, una terra di confine straordinariamente vivace dal punto di vista artistico; un anno prima di lui, qui era nato Francisco de Zurbaràn (1599-1664) e vent’anni dopo, Bartolomé Esteban Pérez Murillo (1618–1682). 

È un fatto singolare che nel Seicento la pittura italiana produce i suoi pittori più grandi fuori dall’Italia. Rembrandt, l’olandese più italiano di tutti anche se in Italia non era mai venuto, e poi i due spagnoli, Françisco Goya e Velázquez, il più grande di tutti
Tomaso Montanari

Come Shakespeare nel Seicento, Velázquez era sceso nei meandri più profondi della condizione della natura umana per restituirla nella realtà della carne, come nessun altro pittore prima di lui aveva saputo fare. 
Gli inizi del giovane Diego sono fin da subito profondamente caravaggeschi e sicuramente l'artista conosce la pittura del grande lombardo attraverso le moltissime copie, attestate da documenti, presenti in territorio spagnolo; in primis “La crocefissione di San Pietro” (Cappella Cerasi Santa Maria del Popolo, Roma), emblema di quell’estremo naturalismo e felice capacità di rappresentazione della realtà, che ritroviamo nei suoi volti di Santi, re, regine, damigelle, buffoni di corte, schiavi e gente comune. 
Dall'età di dodici anni, Velàzquez iniziava a dipingere nella bottega di Francisco Pacheco (1564-1644), un pittore molto colto e accademico, del quale sposerà la figlia Juana. Fin da subito, Velàzquez utilizza la luce di Caravaggio (1571-1610) per far emergere i corpi dall'oscurità e scolpirli con la stessa forza degli oggetti, tutti ugualmente protagonisti del dipinto. 

Un filone tematico importante della pittura di Velàzquez, sono i bodegón, un genere artistico tipicamente spagnolo che, come nelle copiose rappresentazioni prodotte in Europa tra Cinque e Seicento, propone uomini e donne di umile condizione sociale all'interno di cucine ed osterie, in compagnia di cibi ed oggetti 

Se all'inizio Diego guardò alla grande tradizione fiamminga, già quattro o cinque anni dopo la morte di Caravaggio, quando aveva circa sedici anni, ne "I tre musicisti" (1616; Gemäldegalerie, Berlino), annulla ogni registro ironico o aneddotico della scena di genere, per conferire al dipinto una monumentalità peculiare solo delle figure di Santi nelle pale d'altare.
La tela, della quale esistono diverse versioni, è un esempio di bodegón spagnolo; l’ambientazione popolare richiama la tradizione caravaggesca anche se, a queste date, risulta un po' incerta e acerba. I tre musicisti, inebriati dal vino, suonano strumenti seicenteschi davanti a un tavolo bandito con pane e una forma di formaggio trafitta da un coltello, del quale vediamo l'ombra. Dietro al ragazzo più giovane, appare una scimmietta, animale non raro nella Siviglia che smerciava da sempre con le Indie, tuttavia, Montanari suggerisce anche l'idea che si tratti di un simbolo della pittura, intesa come arte dell'imitazione. 

Fin da giovane, Velàzquez è interessato al discorso teorico della pittura e vedremo che userà le immagini da lui prodotte per parlare di arte 
Tomaso Montanari

Dei primi anni giovanili, “Il pranzo” (1617-'18; Ermitage; San Pietroburgo), o forse un'allegoria delle "Tre età dell’uomo", giovinezza, maturità e vecchiaia, qui impersonate dalle figure in gesti misteriosi. Montanari interpreta la scena di bodegón come simbolica di una riflessione sulla vita, un tema già collaudato nella pittura veneta di Giorgione (1478-1510) e Tiziano (1488-1576); anche le due "nature morte", quella sul tavolo con pane, melograni, pesce e il solito coltello in ombra e in bilico, e quella sulla parete, con i panni del cavaliere, ossia dell'uomo anziano, sono simboli di caducità e di cose che finiscono.
Altra grande prova della giovinezza, "Friggitrice di uova" (1618; National Gallery of Scotland, Edimburgo), un'anziana che cuoce e un adolescente con sottobraccio un melone, legato a una corda, che porge una bottiglia di vetro alla donna. Oltre all'estremo realismo degli oggetti e in particolare delle uova nel tegame che stanno rivelando il bianco dell'albume nella cottura, nel dipinto emergono i due ritratti e in particolare quello della signora, che ritornerà in altre tele, ad indicare che Velàzquez, come Caravaggio, lavorava solo con modelli presi dal vero. 

Coraggio quindi, figliole mie! Non affliggetevi se l'obbedienza v'impiegherà in opere esteriori! Vi mettesse pure in cucina, il Signore verrebbe ad aiutarvi, interiormente ed esteriormente, anche là fra le pentole: siatene persuase
Santa Teresa d'Avila

Per entrare nella profondo misticismo religioso della Spagna cattolica dell'epoca, Montanari prende in esame un passo del "Libro delle Fondazioni" (1573-'82), della mistica spagnola Teresa d'Avila (1515-1582), fondatrice dell'ordine di monache e frati dei Carmelitani Scalzi. Il cammino verso la trascendenza, passava dunque anche attraverso il lavoro in cucina; nelle scene di bodegón dunque, Velàzquez alludeva al binomio di vita pratica e contemplativa, come nel dipinto, questa volta biblico e sacro, "Cristo in casa di Marta e Maria" (1620; National Gallery, Londra). 
In un gioco di rimandi, il “quadro nel quadro”, mirabilmente espresso in futuro nel suo geniale e noto, "Las Meninas" (1656), Velàzquez inscena in primo piano una giovane inserviente intenta a pestare le spezie nel mortaio e alle spalle, una donna anziana che indica una scena visibile nella stanza adiacente, attraverso una finestra o forse un quadro, o ancora uno specchio. 

Qui, Gesù seduto in atteggiamento educativo si rivolge a Maria inginocchiata ai suoi piedi e in contemplazione, mentre dietro a lei, Marta sembra voler interrompere il Maestro per condurre la giovane in cucina

Con la forza di Caravaggio, Velàzquez restituisce la realtà del suo tempo; torna il ritratto della "friggitrice" nell'anziana signora in primo piano e tra gli oggetti sul tavolo, tutti gli ingredienti per la salsa "aioli", che nella cucina spagnola accompagna il pesce. 
Sempre di questi anni, "Una domestica per la cena in Emmaus" (1618-'20: National Gallery of Ireland, Dublino), dove l'inserviente di pelle scura, in meditazione dopo aver sgomberato la cucina, ha alle spalle un dipinto dell'"Ultima cena", purtroppo tagliato con la riduzione successiva del quadro. Di questo dipinto esiste anche un'altra versione degli stessi anni ("Una domestica", Art Institute, Chicago), nella quale però la scena trascendente di fondo è stata cancellata a riprova che, nella cultura pittorica di Velàzquez, la realtà delle cose, meglio i suoi "ritratti di cose", assumono nella tela pari dignità. 
Battezzato nella Chiesa di San Pedro a Siviglia, che nell'archivio conserva l'atto di nascita, Velàzquez sarà sempre un buon cristiano, ma non un fervente cattolico, seppur in questi anni dipinge una serie di apostoli per adornare le chiese del tempo, come nella tradizione caravaggesca di Jusepe de Ribera (1591-1652), concepiti dal pittore sotto forma di ritratti: il vecchio "San Paolo" (1619-'20; Museu Nacional d'Art de Catalunya, Barvellona) e il giovane "San Tommaso" (1619-'20; Musée des Beaux-Arts, Orléans).
Negli anni di Siviglia, tra le poche opere di soggetto sacro, Velàzquez dipinse per la sala capitolare del Convento dei Carmelitani, due quadri concepiti en pendant, una "Immacolata Concezione" e un "San Giovanni Evangelista a Patmos" (1618; National Gallery, Londra). "L'Immacolata", culto della Vergine molto diffuso nella cultura spagnola controriformista, è rappresentata secondo le sacre scritture, mentre il "San Giovanni", in estasi davanti alla visione della donna, restituisce l'iconografia della Santa con la dodici stelle intorno al capo e i piedi appoggiati sulla luna.   
Il San Giovanni, dal volto stranamente giovanile, probabilmente un autoritratto dell'artista, guarda con amore struggente la giovane Vergine, per cui, Montanari afferma che probabilmente la coppia di quadri fu dipinta nel 1618, in occasione del matrimonio del pittore con la sedicenne Juana Pacheco, figlia di Francisco, primo maestro di Velàzquez.  

Nelle opere sacre di questi anni, Velàzquez incarna la storia nei ritratti dei suoi contemporanei, facendo così cadere le barriere tra le raffigurazioni divine e di genere 

Nella tela già Barocca, la "Vergine che consegna la pianeta a Sant'Ildefonso" (1623; Museo de Bellas Artes, Siviglia), il Santo prende le sembianze del misterioso committente dell'opera, un tipo un po' emaciato dal volto caravaggesco. Stesso sapore, anche nel quadro dedicato a "Madre Jerónima de la Fuente" (1620; Museo del Prado, Madrid), religiosa in sosta a Siviglia, fondatrice del primo monastero femminile nell'estremo oriente, dal volto pieno di furore e quasi cattivo, sentimenti che l'artista metterà a punto nei futuri ritratti del potere.

Velàzquez inizia ad affilare le armi per ciò che lo attenderà alla corte di Spagna … Di sacro per Velàzquez c'è soltanto una cosa, il volto umano, l'individualità della figura umana e sarà questa la linea portante di tutta la sua arte
Tomaso Montanari

Nel 1622, Velàzquez viaggiava a Madrid e portava con sé uno dei suoi quadri più celebri, "L'acquaiolo di Siviglia" (1621; Wellington Museum, Londra), un bodegón dove un vecchio vende dell'acqua fresca profumata con il fico a un ragazzo. L’acquaiolo, di condizione umile, è reso con una monumentalità che ben si adatta al Santo di una pala d’altare, ma il volto sprigiona tutta la personalità dell'anziano popolano. Anche la "Santa Rufina" (Focus-Abengoa Foundation, Siviglia), giovane martire cristiana, è il ritratto dal vero di una bambina di dieci anni circa, trasformata in Santa grazie alla palma in mano.
Il primo vero ritratto, realizzato nella capitale, sarà "Il poeta Luis de Góngora y Argote" (1622; Museum of Fine Arts, Boston), catturato con profonda intuizione psicologica, in posizione di tre quarti e stagliato su sfondo neutro. Velázquez lo dipinse su richiesta del suocero Francisco Pacheco, che voleva un ritratto di questo "Omero spagnolo", da inserire in un libro in preparazione, rimasto incompiuto, dedicato ad uomini illustri. 
Velàzquez lo porterà con sé a Siviglia e non se ne separerà mai: infatti a queste date, l'effige rappresenta il memorabile vertice caravaggesco raggiunto dal pittore. 
Anche qui, Góngora appare brutto, con la bocca serrata, gli occhi infossati, lo sguardo disilluso e sofferto di un grande poeta ripiegato nell'ultima fase di vita. Pochi mesi dopo, a Roma, Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) scolpiva la testa di uno spagnolo meno illustre, "Pedro Foix de Montoya" (1622-'23; Santa Maria in Monserrato degli Spagnoli, Roma), con lo stesso registro naturalistico tutto caravaggesco. Allo scadere degli anni Venti, Velàzquez e Bernini si incontreranno a Roma dando vita a una "gara sottesa" nel rendere, con pennelli e marmo, la carne viva. 

A Madrid, Velàzquez entra nella corte di Filippo IV, dove diverrà il primo pittore del re; la coppia, inseparabile fino alla morte dell'artista, instaurerà un rapporto molto speciale, qualcosa che Montanari definisce, riferendosi al potente, "il suo alter ego"

Commissionata a Velàzquez da un committente ignoto, nella favola mitologica "Il Trionfo di Bacco" (1628-'29; Museo del Prado, Madrid), l'artista propone una scena di tradizione naturalista, innestata nella rappresentazione storica: in una campagna romana, il dio Bacco rende felici i contadini con il vino e in primo piano, incorona un giovane con foglie di vite. 
Bacco, viene rappresentato nudo come nella pittura italiana, ma non sappiamo se l'artista aveva avuto contatti attraverso copie con i modelli di Caravaggio, quel che è certo, è che i singoli personaggi evocano anche i modi di Ribera. 

In questo momento Velàzquez ha conosciuto alla corte di Spagna l'uomo che gli cambierà la vita più di ogni altro, Rubens, il pittore più famoso, ricco e stimato d'Europa, a Madrid in veste diplomatica
Tomaso Montanari

Pieter Paul Rubens (1577-1640) era già stato a Madrid nei primi anni del Seicento e aveva definito i pittori spagnoli "molto rozzi". Tornato nella città, venticinque anni dopo, il pittore fiammingo incontrava Velàzquez e riferiscono le fonti del tempo, cambiò idea. Nel "Bacco", lo spagnolo ha già meditato sul verbo di Rubens dimostrando di aver compreso il cromatismo di Tiziano e la pittura ariosa del maestro di Anversa. 

Ancora una volta, Rubens apriva gli occhi ai pittori spagnoli come, vent'anni prima, aveva cambiato il corso della pittura italiana e acceso il fuoco del Barocco

Pare che grazie a Rubens, in veste di intermediario presso la corte spagnola di Filippo IV, Velàzquez poté finalmente viaggiare verso l'Italia. 
Nel settembre del 1629, lo spagnolo approdava a Genova nella nave di Ambrogio Spinola, con il quale viaggiò poi a Milano e Venezia; nella Serenissima, finalmente appare davanti ai suoi occhi quella amata pittura collezionata nelle ricche dimore di Spagna. 
Velàzquez non si ferma  a Firenze, indice della decadenza della grande capitale del Rinascimento, ma fa tappa a Cento, dove incontra Guercino (1591-1666). 
Arrivato a Roma, Velàzquez entra nel cuore dell'arte Italiana, vede l'antichità, il Rinascimento di Michelangelo e Raffaello e soprattutto Caravaggio, ma anche la nuova generazione degli artisti barocchi, Nicolas Poussin (1594-1665), Pietro da Cortona (1596-1669) e Bernini. 
Non sappiamo molto del primo soggiorno, ma conosciamo i quadri che dipinse per il re di Spagna, tra cui, "La fucina di Vulcano" (1630; Museo del Prado, Madrid). 

In una fabbrica, Apollo irrompe per avvertire Vulcano che la moglie Venere lo tradisce con lo stesso Marte, per il quale sta forgiando le armi. Il dio del fuoco ostenta un misto d'indignazione e stupore, sentimenti che trapelano anche negli aiutanti, mentre Apollo con aria di netta superiorità, assume il distacco del dio, con il capo immerso nel chiarore aureolare 

Nella messa in scena di un episodio mitologico, calato nella realtà di una bottega adornata da attrezzi di lavoro estremamente realistici come nei bodegón iniziali, Velàzquez inserisce un nuovo modo di narrare. Il Barocco di Guercino e Cortona suggeriva una maggiore espressività gestuale dei personaggi, anche se la suggestione più forte proviene sempre da Caravaggio e in particolare, dalla "Chiamata di San Matteo" (1599-1600; San Luigi dei Francesi, Roma), dove il Cristo che entra in osteria, come qui Apollo, diventa fulcro di attenzione della scena. 
Altro quadro forse dipinto a Roma, "Cristo alla colonna compianto dall'anima cristiana" (1630; National Gallery, Londra), un'iconografia molto rara come anche l'influenza stilistica della pittura bolognese e in particolare di quel Guido Reni (1575-1642), vicino alla lezione caravaggesca. Infatti, l'anima a cui Cristo sofferente rivolge lo sguardo, è incarnata in un bambino che, inginocchiato in preghiera con il suo angelo alle spalle, mostra un'enfasi e un'emotività spiccatamente Barocca, la stessa che nelle grandi pale bolognesi del Seicento catturava lo spettatore guidandolo dentro la scena.

Velàzquez era ormai il pittore più italiano degli italiani
Tomaso Montanari

In "Rissa all’ambasciata di Spagna" (1630; Collezione Pallavicini, Roma), sei soldati italiani e spagnoli vengono alle mani per motivi di gioco, fra randellatori e paceri. Nel  piccolo olio su rame, attribuito allo spagnolo da Roberto Longhi e poi da Federico Zeri, Velàzquez si confronta anche con il genere pittorico della "bambocciata" seicentesca.
Velázquez soggiornò in Italia del 1629 per un anno e mezzo circa. La prima visita nella penisola costituisce un momento cruciale per lo sviluppo dello stile pittorico dell'artista spagnolo e in più, il viaggio rimane nella storia del mecenatismo della corona di Spagna, dato che Filippo IV lo finanziava con una cifra cospiqua.

Seconda puntata
La materia della pittura

Tornato a Madrid, Velázquez diventa "pittore ufficiale" di corte del re Filippo IV e della famiglia reale. Sebbene il mecenatismo di Filippo IV fu molto laico, Velàzquez, intriso di cultura italiana, dopo aver dipinto con toni di "commedia" il suo "Apollo nella fucina di Vulcano", dipinge en pendant un altro quadro di storia sacra, una tragedia tratta dall'Antico Testamento: "Giacobbe riceve la tunica di Giuseppe" (1630; Monastero dell'Escorial, Madrid), realizzato per il Monastero dell'Escorial, luogo di culto della corona spagnola.
I fratelli di Giuseppe, tornano a casa dal padre Giacobbe, esibendo la tunica del figlio prediletto macchiata di sangue, morto per un attacco del lupo. In realtà, i fratelli che avevano venduto Giuseppe a mercanti egiziani e avevano sporcato la veste con sangue  di agnello, vengono scoperti dal cane che abbaia senza che nessuno se ne accorga.
Ancora una volta, il pittore carica di gestualità la figura di Giacobbe che alza le braccia in segno di disperazione evocando gli esiti teatrali di Cortona e Guercino. L'impostazione paratattica dei personaggi, ricordano un fregio antico, le nudità esibite come prima d'ora solo nella "Fucina", il colore veneziano e caldo della scena, fino al cagnolino che ricorda Tintoretto (Jacopo Robusti, 1518–1594), calano Velàzquez dentro la pittura del Barocco.

I pittori di tutte le scuole che lo circondano nel Museo di Madrid e che sono moltissimi, sono del tutto insignificanti accanto a lui, è il pittore dei pittori, non mi ha stupito, mi ha rapito
Édouard Manet 

Davanti a "Ritratto del cardinale infante Fernando cacciatore" (1632-'33; Museo del Prado, Madrid), Montanari cita alcune righe di una lettera di Manet per introdurre la modernità dell'artista spagnolo che, già da metà Ottocento, "risorge" agli occhi dei nascenti impressionisti francesi. 
Il "Ritratto di Fernando" (1632-'33; Museo del Prado, Madrid), fratello di Filippo IV, fu il primo di una serie che comprende anche il ritratto del re e del piccolo figlio, il principe Baltasar Carlos (Ritratto di Filippo IV cacciatore, 1634-'35; Il principe Baltasar Carlos cacciatore, 1635-'36; Museo del Prado, Madrid), che morirà prematuramente a soli sedici anni. 
Destinati alla dimora di caccia reale fuori Madrid, questi tre ritratti non ufficiali hanno tutte le caratteristiche per far colpo su Manet e la generazione di artisti coevi. Infatti, per il pittore spagnolo la natura circostante che accoglie le figure, così come sono senza nessuna nota ideale, ha lo stesso valore dei corpi. Fernando poi, appare in "abito sportivo", con un fucile da caccia e nulla che alluda al suo culto anzi, tutte e tre le figure imbracciano il fucile come dei valorosi guerrieri pronti alla sfida. 
Montanari fa notare la modernità di Velàzquez nel "colore della terra" che caratterizza, nei verdi, nei bruni e nei grigi, i tre ritratti; inoltre, la materia pittorica che si disfa sulla tela e rende visibili i colpi di pennello, rende protagonista indiscussa dei ritratti la stessa pittura. Pertanto, anche "Testa di cervo" (1626-'28; Museo del Prado, Madrid), con lo sguardo dritto allo spettatore, dipinto prima del viaggio in Italia, ha la stessa valenza di un ritratto umano, realizzato nei modi della pittura veneta cinquecentesca. 
Il "Ritratto di Fraga" ("Ritratto di Filippo IV come condottiero", 1644; Frick Collection, New York), che Montanari definisce "straordinariamente dipinto", forse "la vetta del ritratto nella storia della pittura occidentale", venne realizzato all'indomani della vittoria contro i francesi di Filippo IV, nel 1644. Il re posò per il pittore a Fraga, cittadina dove la Corte si trovò a festeggiare, in sole tre sessioni, dentro un atelier sistemato alla buona, dove Filippo appare, con lo stesso vestito color cremisi e il manganello militare con cui era entrato vittorioso nel luogo liberato. La tela uscì dalla Spagna nel 1748, quando Filippo V la donò al fratello, il Duca di Parma. Nel 1911, l'opera entra nella collezione del grande industriale dell'acciaio Henry Clay Frick, dove oggi è esposta.
Il re, dipinto più volte da Velàzquez, non ha alcuna aria trionfante anzi, appare serio, preoccupato e stanco, in un ritratto "drammatico" che lascia la vittoria in secondo piano. Infatti, il cappello in mano, che rende il ritratto non ufficiale, fa pensare ad un voluto ed affettuoso omaggio alla regina Isabella, la giovane sposa che morirà di parto prima del ritorno del marito; ma il quadro di Velàzquez, arrivava a corte per restituire alla donna l'ultima immagine dell'amato. 
Ritratto a grandezza naturale, Filippo IV è immerso in un’esplosione di rossi, grigi argentei e luci intense. La genialità ed il virtuosismo della pennellata di Velàzquez appare evidente soprattutto nella resa dei ricami argento sul vestito rosso e nel bagliore della seta delle maniche che evidenziano, per contrasto, la sobria linearità del viso. Spicca la piuma del cappello rossa sulla giubba del medesimo colore, con il gallone d’argento ed il giustacuore, nonché le maniche argentee realizzate con una materia quasi liquida e una pennellata "impressionista".

Al disfacimento della forma, corrisponderà, di lì a breve, anche quello dell'Impero spagnolo, fa notare Montanari, ma non è tutto. Ripensando a Manet, lo storico dell'arte mette in evidenza come, solo a una certa distanza, la  tecnica pittorica innovativa e quasi a macchia, si ricompone, quasi che Velàzquez avesse voluto dipingere l'impressione 

Tra il 1649 e il 1651, Velàzquez torna in Italia, inviato dalla Corona a comprare quadri e sculture, nonché a reclutare pittori frescanti, destinati a decorare l'Alcazar di Madrid. L'artista, ora famoso, entra nella corte papale con l'intento preciso di realizzare il noto "Ritratto di Innocenzo X" (1650; Galleria Doria Pamphilj, Roma). 
La tradizione vuole che, la sera prima di incontrare il papa, il pittore si "sciolse le dita" esercitandosi con il "Ritratto di Juan de Pareja" (1650; Metropolitan Museum of Art, New York), il suo schiavo mulatto. Il ritratto, emblematico nella sua sintesi veritiera che parla di un servitore dalle vesti consunte, mostra la fierezza del volto di quel Juan de Pareja (1606–1670) che, dopo aver macinato a lungo i colori per Velàzquez, diventerà lui stesso pittore, ma inizialmente clandestino perché schiavo. 

Risale agli anni Ottanta del Novecento, il ritrovamento di un documento d'archivio che certifica Velàzquez di fronte a un notaio, per scrivere di suo pugno l'impegno a liberare dalla schiavitù l'aiutante Pareja entro quattro anni

Sia stato l'effetto della compassione umana enunciata dal grande Giubileo romano del 1650, o anche l'aver potuto vedere tutta l'umanità profonda del servitore attraverso il ritratto, a far si che l'artista prendesse tale decisione, non è chiaro, sta di fatto che Pareja diverrà pittore, libero di esprimere la sua creatività e dignità di un uomo. 
A tanta moralità di un servo, nello stesso momento Velàzquez restituisce l'immagine della "nullità" dell'uomo in un ritratto di un potente della corte papale, "Il cardinale Camillo Astalli Pamphilj" (1650; Hispanic Society of America, New York), immortalato  a mezzo busto, con un cappello cardinalizio sulle ventitre, a sottolineare l'instabilità e la frivolezza del personaggio assunto al potere per puro nepotismo. Velázquez si muove nella corte papale come abituato in quella spagnola di Filippo IV, un re disponibile a guardare attraverso i suoi pennelli tutta la gamma dei caratteri umani, dai più bassi e meschini, ai più gloriosi e onesti.  

Il ritratto di Pareja, fece scalpore nella Roma di Cortona, Poussin e Sacchi, tanto da oscurare, a detta delle fonti dell'epoca, i pittori barocchi locali e ad aprire a Velàzquez le porte per dipingere il sommo pontefice

Nel "Ritratto di Innocenzo X", dipinto nell'estate del 1649, il pontefice ha appena accolto il pittore nella sua stanza e lo guarda fisso negli occhi. L'opera, è un ennesimo omaggio alla pittura veneziana, confermato anche da recenti radiografie che dimostrano come Velàzquez utilizzò anche una tela tipicamente veneta. 
Già dieci anni dopo, nella sua "Carta del navegar pitoresco" (1660), lo storiografo e critico d'arte Marco Boschini (1613-1704), affermava che Velàzquez, con questo ritratto, assegnava la "palma del pittore" a Tiziano, strappando il primato romano di Raffaello. Velàzquez accendeva a Roma la corrente del neovenetismo guardando ai rossi, "quasi diabolici", che contraddistinguono il "Ritratto di Paolo III e i suoi nipoti" (1546; Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli) di Tiziano e prima ancora, quelli di Raffaello che aveva inaugurato effigi papali estremamente vere. 
Papa Innocenzo X, al secolo Giovanni Battista Pamphili (1574-1655), viene ritratto a settantasei anni e in piena salute; era un uomo molto brutto e soprattutto cattivo, dallo sguardo arcigno e dal volto sempre imbronciato, cosa che esaltava l'asimmetria dei tratti. 
Alludendo ai giochi di potere del papato romano dell'epoca, Montanari sottolinea che con il ritratto di Innocenzo X, Velàzquez mostrava una sua riflessione sul corpo fisico e morale del pontefice; di sicuro, un uomo poco amato anche dalla stessa famiglia Pamphili, da lui generosamente onorata con nomine ed incarichi importanti, ma che dopo la sua morte manifestò una sfrontata avarizia anche per seppellirlo. 

Chi ritrae Velàzquez, il pontefice o l'uomo? Ora le due cose si confondono, ma esploderanno nel Novecento nelle molte tele dalle pennellate violente e implacabili che Bacon dedicava all'opera del grande spagnolo
Tomaso Montanari 

Della corte di Innocenzo X, altri due ritratti meritano menzione, quello di "Ferdinando Bandani", (1650; Museo del Prado, Madrid), e quello di "Monsignor Camillo Massimi" (1650; Kingston Lacy, Dorset), testimoni entrambi del dialogo instaurato dall'artista spagnolo con l'artista "Principe del Barocco" romano, Bernini. 
Da studi recenti, sappiamo che Bandani non era il "barbiere del papa", come riportato da fonti antiche che identificavano la professione dal colletto bianco indossato dall'uomo nel ritratto di Velázquez, bensì un individuo in affari di origine portoghese, che a Roma s'arricchiva con banche e immobili. Per avvicinarlo alla corte di Innocenzo X, la corte spagnola pagò lautamente e Bandani ottenne la carica di alto funzionario della segreteria del papa. Tuttavia, smascherato in una truffa ai danni di Innocenzo X, Bandani fu arrestato e condannato a remare in galea, morendo in carcere due anni dopo.

Capolavoro di austerità, il ritratto di Ferdinando Bandani è piccolo dipinto che affascina per la vera intimità con cui Velázquez ritrae un uomo e anche un amico. Il pittore si sofferma nella descrizione del volto e lascia in ombra, con toni neutri, il resto del dipinto risolto nei pochi colori del nero, bianco, grigio e rosa

Con il ritratto di "Monsignor Camillo Massimi", Velázquez svelava un personaggio di una illustre famiglia romana e che vent'anni dopo, sarà Cardinale. Massimi era un grande mecenate e umanista, collezionava antichità romane ed era amico di Poussin, pittore Barocco del "classico". Velázquez, sceglie di ritrarlo nella veste di cameriere segreto, ossia, di ciambellano privato di papa Innocenzo X, con una veste di colore insolito, un blu oltremare ottenuto da preziosi lapislazzuli macinati. Un ritratto prezioso. 

A Roma Velàzquez affronta anche il genere del paesaggio in due piccole vedute di Villa Medici, residenza della famiglia granducale piantata sul cuore del Pincio

si tratta di "Padiglione di Arianna nel giardino di Villa Medici" e "Entrata nella grotta nel giardino di Villa Medici" (1650; Museo del Prado, Madrid), due piccole tele dipinte en pendant, delle quali non è certificata la provenienza. È certo invece che il pennello vibrante e sciolto di Velàzquez, li attesta al secondo periodo della permanenza dell'artista a Roma. Per Montanari, si tratta di due vedute inedite, risolte con la tecnica "en plein air", già usata dagli artisti del Barocco per certi "studi dal vero" che, rientrati in atelier, diventano "finiti" nella loro modernissima completezza. 

Montanari spiega che Velázquez, maestro del ritratto, qui ha voluto trattare un brano di paesaggio romano come tale: un "ritratto di paesaggio" 

Unico ritratto di Velázquez conservato in Italia, dopo quello di Innocenzo X, è "Ritratto di Francesco I d'Este" (1638; Galleria Estense, Modena), realizzato durante il soggiorno del Duca a Madrid. Il principe italiano aveva chiesto a Velàzquez un ritratto equestre, un emblema di gloria, ma nella fretta di finirlo, il pittore spagnolo conosciuto in patria per la sua "flemma", conclude la posa nel formato mezzo busto, di tre quarti. Ancora una volta, Montanari fa notare che per Velázquez la scelta dei colori è essenziale: pochissimi pigmenti impastati con legante oleoso, a partire dal drappo rosso dipinto "alla Renoir", per finire al nero carbone, al verde e al bianco piombo. Come nel ritratto di "Innocenzo X", Velàzquez caratterizza la figura del duca in rosso. Il giovane dagli occhi penetranti esibisce emozionato una posa ufficiale che Velázquez sa cogliere nell’eccitazione e la vanità di un regnante ambizioso e "commediante".

Il pittore sa bene come cogliere il volto vuoto del potere. Francesco D'Este si crede all’apice di un’effimera gloria perché su terra di Spagna, anche se di lì a poco, si sarebbe alleato con i francesi

Al suo rientro a Madrid, Velàzquez affronta i "ritratti del potere" della corte spagnola, e dopo Filippo IV, guarda alle donne e ai pargoli di una monarchia apparentemente all'apice, ma che nasconde tutte le ombre di un futuro infausto
Le donne sono tante, dalla prima moglie di Filippo, Elisabetta di Borbone ("Elisabetta di Francia", 1632; Collezione privata, New York) morta nel 1644, a "Maria Anna d'Austria" (1652-'53; Museo del Prado, Madrid), seconda consorte. La figlia del primo matrimonio, Maria Teresa ("Ritratto dell'infanta María Teresa di Spagna"; 1652-'53; Kunsthistorisches Museum, Vienna), sarà la futura sposa di Re Sole nel 1660; sarà questa l'ultima scena ufficiale vissuta da Velázquez alla corte spagnola, prima di morire. 
Non mancano i moltissimi ritratti dedicati all'infante Margherita, nata nel 1651 dal secondo matrimonio del re, rappresentata più volte dai tre, ai sette anni circa ("Ritratto dell'infanta Margherita", 1655; Fundación Casa de Alba, Madrid. "Ritratto dell'Infanta Margherita in azzurro", 1659; Kunsthistorisches Museum, Vienna), in vesti sontuose e riccamente colorate di rosa, blu e argento. Con lei, il fratello morto prematuro a soli quattro anni, Filippo Prospero ("L'infante Filippo Prospero", 1659; Kunsthistorisches Museum, Vienna), viene ritratto in una veste piena di amuleti portafortuna. 
I pennelli del grande Velàzquez non risparmiano a nessun di questi reali la tristezza espressa in volti che sembrano racchiudere la sorte futura. E tuttavia, i dettagli di vasi, tappeti, nonché le stoffe degli abiti, sono tutti elementi risolti con quella libertà  espressiva cara a Manet e agli impressionisti.

Terza puntata
Mucha alma en carne viva

Alla corte di Madrid, "pittore ufficiale" fin dal 1623, Velàzquez ha potuto sperimentare ed evolvere le due anime principali della sua arte, quella caravaggesca e quella alla "maniera veneziana", esplosa prima nell'incontro con Rubens, poi nel viaggio in Italia. 
Il rapporto tra Filippo IV e Velàzquez fu molto intrigante. Montanari ricorda che i due si conoscono in giovane età, il primo diciotto anni, il secondo ventiquattro. Eppure, malgrado la differenza di ceto, instaurano un rapporto esclusivo che li vede assieme per ben sessantacinque anni, durante i quali, il pittore  sarà l'unico ritrattista del monarca, ed eccezione di Rubens.
Quando Velàzquez arriva a Madrid, l'arte ufficiale è ancora quella manierista delle corti europee eleganti e sofisticate, ma il giovane pittore nel ritrarre il suo sovrano, sfoggia uno stile caravaggesco molto insolito, come visibile in "Filippo IV in piedi" (1624; Metropolitan Museum of Art, New York), secondo ritratto del re. Vestito di nero, impenetrabile nella distanza, con tratti rosei e carnali, Filippo IV si staglia su un fondale neutro come una statua dipinta. 
"Ritratto di Filippo IV da giovane" (1628; Museo del Prado, Madrid), con la grande fascia rossa che avvolge l'armatura, il volto vero e lo sguardo profondo, denuncia lo stile di Tiziano, appreso da Rubens. 
Degli anni Trenta, "Ritratto di Filippo IV in marrone e argento" (1631-'32; National Gallery, Londra), a figura intera, dove ancora una volta il costume è il protagonista di  una pittura fluida e vibrante, quasi "impressionista".
Negli anni Trenta del Seicento, il re decise di ornare il Salón de Reinos, nel suo Palazzo del Buon Ritiro, fuori Madrid, con una serie di ritratti equestri di tutta la famiglia reale; il primo sarà proprio il suo, "Filippo IV a cavallo" (1634-'35; Museo del Prado, Madrid), catturato nell'attimo in cui l'animale si sta alzando. Velázquez non ignora i due principali modelli pittorici disponibili: il "Ritratto equestre di Carlo V" (1548; Museo del Prado, Madrid) di Tiziano e la "macchina allegorica" che Rubens aveva dipinto, sempre per Filippo IV ("Ritratto equestre di re Filippo IV di Spagna", 1645; fino al 1734, Galleria degli Uffizi, Firenze) e che, all'epoca, era esposto alla corte di Madrid, in una sfida aperta con il giovane "pittore del re". 
Tuttavia, il "Filippo IV" a cavallo realizzato da Velázquez, lascia la tensione drammatica di Tiziano e l'apparato retorico di Rubens; il monarca in sella non guarda lo spettatore, ma assorto, volge lo sguardo dentro al quadro verso le sue amatissime montagne di caccia.

Velázquez costruisce l'immagine del re cattolico distaccato e meditativo come un idolo e nello stesso tempo, vero e carnale, una formula che farà la sua fortuna nella corte spagnola

Il "Monumento equestre a Filippo IV", posto al centro di Plaza de Oriente a Madrid, realizzato nel Seicento a Firenze, dal toscano Pietro Tacca (1577-1640), fu eseguito facendo riferimento a un disegno di Velázquez. Per assicurare l'ardita stabilità del cavallo che alza le zampe anteriori preparandosi al balzo, come dal modello che il pittore inventa per Filippo IV, venne chiesta la consulenza scientifica di Galileo Galilei.
Il circolare Salón de Reinos, nel Palazzo del Buon Ritiro, venne ultimato con i ritratti della moglie di Filippo IV, Isabella, ("Isabella di Borbone a cavallo", 1634-'35; Museo del Prado, Madrid), quelli dei genitori del re Filippo, Margherita d'Austria e Filippo III ("Margherita d'Austria a cavallo", "Filippo III a cavallo", 1634-'35; Museo del Prado, Madrid), nonché con il "Ritratto del Conte Duca di Olivares a cavallo" (1634; Museo del Prado, Madrid), primo ministro a corte e politico di regime con origini sivigliane, come Velázquez. 

La corte spagnola offrì a Velázquez non solo i potenti della storia, ma anche gli ultimi, i nani e i buffoni a cui il pittore è chiamato a volgere i suoi pennelli pieni di empatia

A una lunga serie di figure deformi, chiamate all'epoca "i vermi della corte", l'artista riserva la stessa dignità che dava ai grandi condottieri, denudando quell'essenza psicologica di "anormali" che, ancor oggi, tocca lo spettatore più disincantato. 
La coppia di quadri più famosi di nani, "Il ragazzo di Vallecas (1642) e "Diego de Acedo, el Primo" (1644), entrambi al Prado di Madrid, erano esposti nel Palazzo del Buon Ritiro, a conferma che la corte, quando si muoveva, portava con sé potenti e miserabili. 
Anche per questi soggetti, Velázquez non risparmia i suoi mezzi e con una pittura liquida e sintetica, estremamente moderna, la stessa che dedicava a Filippo IV, coglie l'umanità della povera gente. Un terzo quadro, dello stesso formato ridotto dei primi due, è il "Ritratto di Sebastian de Morra" (1644; Museo del Prado, Madrid), un nano e buffone di corte, storpio dalla nascita, che Velázquez ritrae seduto, nella posizione del burattino, con un'espressione severa e triste, rivolta allo spettatore, che contrasta con la sua professione, quasi il pittore volesse dar voce al tormento dell'uomo.
"Ritratto di Juan Calabazas" (1638-'39; Museo del Prado, Madrid), mostra un buffone di corte con accanto le sue zucche, simboli della "poca testa" di un personaggio folle, che infatti, tiene stretto un bicchiere di vino. Clamoroso, il sorriso che all'epoca era bandito dai ritratti e straordinaria, l'invenzione del viso reso nella pittura "fuori fuoco", con cui Velázquez alludeva alla demenza.

Montanari sottolinea, ancora una volta, come la straordinaria sintesi formale e la scarna pittura che Velázquez dedica a queste figure, potrebbero essere opera di Manet 

Sempre nel Palazzo del Buon Ritiro, erano presenti almeno sei quadri di buffoni a figura intera, opere che oggi sono identificabili in una serie di ritratti di personaggi a cui i giullari di corte si ispiravano: quello dell'attore, "Pablo de Valladolid" (1632-'33; Museo del Prado, Madrid), amatissimo da Manet, la coppia del "Buffone Barbarossa" (1637-'40; Museo del Prado, Madrid), pirata saraceno e "Don Giovanni d'Austria" (1632-'33; Museo del Prado, Madrid), condottiero che guidava la flotta spagnola a Lepanto contro i turchi. 
Nel ritratto del "Principe Baltasar Carlos con un nano" (1632; Museum of Fine Arts, Boston), Velázquez dipinge un quadro alla Tintoretto e alla Tiziano, un'incursione profonda, a detta di Montanari, alle origini cinquecentesche del caravaggismo. 
Nel confronto con un'altra opera simile e coeva, "Il principe Baltasar Carlos a tre anni" (1632; Wallace Collection, Londra), appare evidente che il pittore, in un momento divertito con l'amico e sovrano Filippo IV, aveva prima allargato il "campo di veduta" e quello che era un "ritratto ufficiale", del piccolo e futuro re di Spagna in posa, diventava così un gioco, dove il piccolo nano tiene in mano un campanellino e una mela per intrattenere il bambino sovrano.

Il dispositivo messo in scena dal pittore, anticipa il suo capolavoro più noto, ”Las Meninas”, dove l'artista svela la sua arte facendo vedere il momento della posa, ossia della realizzazione del quadro, "tutto quello che scompare quando la tela è finita", sottolinea Montanari 

Qualche anno dopo, in un'altra serie di quadri giocati sulla contrapposizione tra realtà e finzione dell'arte, Velázquez “scopre le carte” in due ritratti equestri di Baldasar Carlos: nel primo, mostrava il piccolo re a cavallo in un ritratto ufficiale ("Il principe Baltasar Carlos a cavallo", 1635; Museo del Prado, Madrid), e nel secondo, la situazione che si era creata durante l'allenamento del fanciullo all'aperto, in mezzo a personaggi della corte. Carlos, è bloccato nell'attimo in cui cerca di far impennare il suo cavallo nella stessa posa del ritratto ufficiale ("Il principe Baltasar Carlos a cavallo con il conte duca di Olivares presso il Palacio del Buen Retiro"; 1635-'36; Collezioni del duca di Westminster, Londra).

Attraverso l’ossessione del ritratto, Velázquez arriva a dipingere “Las Meninas”, opera definita a ragione “il capolavoro di tutti i tempi”, e a detta di Luca Giordano, “la teologia della pittura

Las Meninas” (1656; Museo del Prado, Madrid), tradotto dal portoghese, “Le damigelle d'onore”, è una tela il cui grande formato rimanda alla solennità e monumentalità delle pale d’altare. Quando Velázquez realizzò il quadro, stava accanto al re da ben trentatré anni, il tempo necessario per poter ora parlare del rapporto tra il pittore, il cui status sociale non era ancora elevato come per musicisti e poeti, e il suo committente Filippo IV. 
Oltre al rapporto tra arte e potere, il dipinto s’inscrive anche nella pittura di genere, come i tanti quadri che nel Seicento riproducono il quotidiano, ma nello stesso tempo, è anche un quadro di storia che ritrae la famiglia reale al completo. 
Dopo la morte della prima moglie e dell'unico figlio, in mancanza di eredi, nel 1649 Filippo IV sposava Marianna d'Austria; la loro primogenita e unica figlia al momento di "Las Meninas", era Margherita (1651–1673), qui ritratta in primo piano, circondata dalle sue dame di corte. Alla sua destra, s’inchina porgendole dell’acqua la damigella della regina, Doña Maria Augustina de Sarmiento e a sinistra, la dama d’onore Donna Isabel de Velasco che dai gesti, s’intuisce stia parlando. Davanti allo spettatore, Mari-Bàrbola, una brutta nana con il suo mastino castigliano, spinto dal piede di Nicolasito Pertusato. La nana, delle stesse dimensioni dell'Infanta, ma un po' ingrandita dalla maggior vicinanza all'osservatore, per contrasto fa apparire Margarita più delicata, fragile e preziosa. Alle spalle del gruppo, Marcela de Ulloa, l’addetta al servizio delle dame della Regina in abiti da monaca, che conversa con Diego Ruiz de Azcona, un funzionario di corte. 

Sulla sinistra, appare Velázquez in piedi e in abito elegante, di fronte a una grande tela sul cavalletto, con in mano pennelli e tavolozza; sul petto esibisce la Croce rossa dell’ordine di Santiago, particolare che verrà aggiunto tre anni dopo la conclusione del dipinto, quando il re conferirà al pittore l'attesa onorificenza 

Lo spettatore non sa cosa sta dipingendo Velázquez. È evidente che l'artista arretra di un passo per mettere a fuoco la scena davanti a lui, ossia quello che l'osservatore vede in uno specchio sulla parete di fondo che riflette il doppio ritratto del re e della regina, presenti in modo indiretto. Velázquez li rende visibili dalla luce che entra nell’attimo in cui si apre una porta sul fondo e appare il ciambellano José Nieto. 

Attraverso il gioco di “controcampo” lo spettatore viene a trovarsi nello stesso luogo dei sovrani, come proiettato all’interno del quadro e coinvolto nella rappresentazione

Il capovolgimento del punto di vista, fa si che il dipinto non sia più, come di consueto, visto dal lato del pittore, ma da quello di coloro che vengono ritratti, in questo caso i due sovrani, veri protagonisti del quadro.
La scena illuminata da destra in maniera ampia, esalta i personaggi principali. Nella definizione dello spazio, la moltiplicazione delle fonti luminose gioca un ruolo importante e Velázquez, si rivela molto abile nel creare la prospettiva della grande stanza dai soffitti alti.
I soggetti sono posizionati in maniera strategica per creare più piani visivi e diagonali, che attirano l'attenzione su varie aree della stanza. La profondità, data dal rapporto di grandezza tra le varie figure, viene ulteriormente accentuata dalla porta aperta sul fondo che oltre a rivelare lo specchio, mostra tre opere d'arte in fila sullo scorcio di muro a destra, che sappiamo essere due quadri mitologici di Rubens raffiguranti le "Metamorfosi" di Ovidio. 
L’opera è risolta con pennellate molto rapide e larghe e i colori sono puri. Il più diffuso per l’ambiente è il grigio tendente al bruno che ritroviamo anche negli abiti grigio neri, tranne quello del nano sulla destra che tende al rosso porpora e l’abito dell’infanta, complessivamente bianco. 

Dov’è la scintilla di "Las Meninas", si chiede Montanari

L'opera fu talmente bene accolta da Filippo IV, che lo volle per sé, come un “ritratto ufficiale, appeso dietro la sua scrivania. Da un carteggio tra il re e una ex dama di compagnia della prima regina, che gli chiedeva ritratti, come fotografie ricordo, emerge che il monarca non voleva più apparire perché si vedeva invecchiare e soprattutto, non poteva più sopportare “la flemma di Velázquez”, il suo pittore, al quale lui, il re, il potente sovrano, non poteva dettare i tempi.

Montanari fa notare due dettagli del quadro, in primo piano il ragazzino che con il piede sveglia il cane perché di rito deve seguire il re, e nel fondo la porta aperta dal ciambellano che entra, per lanciare un'ipotesi molto suggestiva: “la posa è finita”

“Las Meninas” dunque, teologia, filosofia e teoria della pittura, potrebbe essere nato anche per suggerire la fine della finzione, come una moderna commedia, o tragedia della vita, portate in scena nel Seicento spagnolo da Calderón de La Barca.


Quarta puntata
I fantasmi di Velázquez

Per il Palazzo del Buon Ritiro di Filippo IV, nella cui Sala dei Regni erano esposti dodici tele dedicate ai principali successi militari della Spagna, eseguite dei maggiori pittori spagnoli del tempo, Velàzquez dipinse l’unico suo quadro di storia, la “Resa di Breda” (1635; Museo del Prado, Madrid). 
Si tratta di un episodio successo dieci anni prima, quando gli spagnoli invasero le Provincie Unite olandesi e per circa un anno, posero il vessillo delle terre.  A fine Cinquecento, i Paesi Bassi, guidati dal nobile e valoroso Guglielmo d'Orange, furono immersi nella “guerra degli ottant'anni” per l'indipendenza dalla Spagna; dopo una lunga tregua, nel 1621, quando Filippo IV salì al trono, il conflitto riprese con l'intenzione del re di recuperare quelle terre importanti ad aprire varchi verso altre conquiste future.
Senza nessuna ostentazione retorica e di gloria militare, nella “Resa di Breda” Velázquez inscena una “consegna delle chiavi”, più che una capitolazione, evidente nei due personaggi in primo piano: il condottiero Antonio Spinola, genovese che l’artista conosceva benissimo, avendo viaggiato verso l’Italia proprio nelle sue navi e Guglielmo I, ossia Giustino Nassau d’Orange che, dopo un anno di valorosa resistenza all’armata spagnola, consegnava le chiavi.
Velázquez scelse quel particolare momento perché su quell’assedio ed epilogo si scrisse molto, esistevano anche stampe e soprattutto, era stato oggetto di un melodramma di Pedro Calderon de la Barca (1600-1681), recitato alla corte del re già nel 1625, alla presenza dell'artista.

I due protagonisti non appaiono in conflitto, anzi, per le movenze e i gesti sembrano usciti da una sacra “Visitazione”; Velázquez allude al fatto che, tra sconfitti e vittoriosi c'è un’etica umana nel riconoscere le rispettive doti di resistenza, forza e meditato ritiro, quando necessario

Ancora una volta, Velázquez risolve il grande quadro storico in un altrettanto enorme “ritratto di gruppo”; usa sembianze veritiere per i due protagonisti, e inventa quelli delle due schiere che accompagnano i condottieri. Tra gli olandesi, a sinistra, spicca il ritratto di un fuciliere che guarda lo spettatore, mentre le loro lance sono abbassate con i vessilli rotti. A destra, gli spagnoli alzano una marea di lance come in un inno trionfale, tanto che il quadro venne chiamato anche “Las lanzas”. Tra i volti degli spagnoli, spicca all’estrema destra quello di Velázquez stesso, che guarda lo spettatore e un po’ più al centro, quello di Don Pedro de Barberana, che il pittore aveva dipinto pochi anni prima ("Don Pedro de Barberana y Aparregui"; 1631-’32; Kimbell Art Museum, Fort Worth) e soprattutto, non aveva niente a che fare con quest’episodio. 

Velázquez non è capace di immaginare la realtà se non attraverso la carne degli uomini, un’eredità fondamentale di Caravaggio che qui ritorna anche nella citazione del grande cavallo, visto da tergo, come nella rivoluzionaria “Conversione di San Paolo”, dipinta dal lombardo per la Cappella Cerasi di Roma

Il ritratto allegorico di “Marte” (1640; Museo del Prado, Madrid), dio della guerra in riposo come nella tradizione italiana, esibisce una nota di malinconia sottesa. Velázquez mostra la parodia del personaggio, forse per alludere alla decadenza del regno spagnolo: le armi a terra e l’elmo calato sul volto incorniciato da due baffoni alla spagnola arricciati in su, non è proprio l'immagine di in dio. Il pittore aveva trovato il modello a Palazzo Altemps di Roma, una statua antica romana di “Marte a riposo”, dove Bernini era intervenuto nel 1622, per aggiungere l’elsa della spada e un Cupido. Se Velazquez la vede nel secondo viaggio in Italia, spostamento voluto da Filippo IV che inviava l'artista ad acquistare opere d’arte per il Buon Ritiro, il "Marte" andrebbe post datato, fa notare Montanari.
Il quadro, sarà esposto nella Torre della Parada assieme ad altre due tele, dedicate a filosofi e scrittori greci, “Menippo” ed “Esopo” (1639-’42; Museo del Prado, Madrid), opere dipinte da Velázquez per misurarsi con due quadri di Rubens, anch'essi concepiti en pendant: “Democrito”, il filosofo ottimista che ride perché amante della vita e il suo predecessore, “Eraclito”, autore di testi tristi e oscuri sulle debolezze umane. 
Velázquez sceglie una strada completamente diversa da quella del grande maestro fiammingo; simile il formato verticale, ma i due filosofi greci sono stagliati su fondi scuri che ben si accordano alla ristretta gamma di neri e marrone delle vesti, esibite lacere alla maniera di mendicanti e straccioni.
Velázquez vuole ribadire che il pensare richiede un certo distacco dalle cose terrene. I volti veri e rivolti allo spettatore con sguardi di piena empatia, suggeriscono l’idea che Velázquez volesse esporre il suo "Marte", un Filippo IV nudo, davanti agli sguardi di due poveri saggi che, come "giullari" nella vita di corte, stavano accanto al re.

Da un documento dell’archivio di Stato romano della Sapienza, ritrovato nel 1983, si evince che durante la seconda permanenza a Roma, Velázquez ebbe un figlio illegittimo, Antonio

Nel documento, redatto tramite gli amici più stretti dell’artista che agivano per suo conto a Roma, si fa menzione di una balia, una tale Marta inabile ad assolvere il compito di allevare il piccolo, per cui, andava liquidata. Nel 1651, a malavoglia, Velàzquez fu costretto a rientrare alla corte di Madrid, senza probabilmente vedere il piccolo Antonio; di certo, fu l’unico figlio maschio dell'artista. Nel 1657, Velázquez tentava di tornare a Roma, ma Filippo IV non lo lasciava partire e del piccolo non si saprà più nulla.
Non avendo certezze sull’identità della madre, Montanari propone il confronto tra due opere di quel periodo, che hanno suggerito allo storico dell'arte Alvar Gonzales Palacios, un’ipotesi molto suggestiva. Nei suoi studi, Palacios avvicinava l'opera di Velàzquez, “Donna come sibilla” (1648-’50; Meadows Museum, Dallas), ritratto molto sensuale e a mezza figura, dipinto con la "libertà di Renoir", alle fattezze del busto di “Costanza Bonarelli” (1636-'38, Museo Nazionale del Bargello, Firenze), l'amata che Bernini ritraeva pochi anni prima in un busto marmoreo dal sapore erotico. 
L’ipotesi che Velàzquez avesse voluto tradurre in pittura il medesimo “ritratto privato” della donna, è abbastanza probabile anche per Montanari che sottolinea, come Costanza amante del "primo artista" romano, fosse anche moglie di quel Matteo Bonarelli scultore, incaricato dallo stesso pittore spagnolo ad eseguire la fusione di statue destinate alla corte di Madrid. 

Un amico di Velázquez, racconta che una dama di Saragozza aveva rifiutato un ritratto dell'artista, perché non aveva saputo dipingere in modo esatto un certo colletto di pizzo a cui teneva moltissimo … Diego dipingeva delle macchie di colore che non sono somiglianti alla realtà, ma della realtà riproducono la verità … Non somigliano, ma sono vere
Tomaso Montanari

Si tratta di “Dama con ventaglio” (1640; Wallace Collection, Londra), ritratto di non certa identità. Data la presenza fisica e sensuale della donna, abbigliata con una ricca scollatura, all'epoca vietata alle signore della corte di Spagna che dovevano seguire regole severe e rispettose della morale, l'eccesso esibito porta a supporre si tratti di una duchessa francese fuggita con il marito in Spagna. 
I ritratti femminili di Velàzquez sono molto rari, soprattutto quelli che non riguardano i personaggi della corte, spesso concepiti come “ritratti liberi” nello spirito e nel pennello, quadri realizzati per sé, come la sua "Sibilla", amante e madre di Antonio. Sono queste opere dove Velázquez da vita alla sua pittura più espressiva, quasi “impressionista”, ma che affonda le sue origini nella conoscenza dell’ultimo Tiziano e Tintoretto
Il quadro più famoso di Velàzquez di alta temperatura erotica, è “Venere e Cupido” (1647-’51; National Gallery, Londra), l’unico oggi identificato tra i nudi realizzati dal pittore spagnolo. 
Dipinto quasi sicuramente a Roma, sia per i modi, sia perché a Madrid era impossibile avere accesso a una modella nuda, l’opera di fruizione privata era appartenuta al marchese del Carpio, un insigne collezionista di pittura erotica, ambasciatore nella città Eterna. La “Venere” di Velàzquez fu comprata dal diplomatico nel 1652, subito dopo la morte del primo proprietario, il pittore spagnolo Domingo Guerra Coronel. Ma il fatto che il nome di Velázquez non sia citato nell'inventario di Coronel, è dovuto proprio alla natura erotica del dipinto, considerato assai "pericoloso" nella Spagna del Seicento fortemente cattolica e controriformista. Dopo Velàzquez, infatti, l’unico nudo spagnola noto, oggi conosciuto, risale a fine Settecento, ed è la “Maja desnuda” (1795-1800) di Goya.
Una potente fonte d'ispirazione per Velázquez, furono i nudi di Venere dipinti da Giorgione (Venere dormiente,1508-’10), Tiziano (Venere di Urbino, 1538), e Tintoretto (Venere, Vulcano e Marte, 1551-'52; Alte Pinakothek, Monaco di Baviera), tuttavia, l'artista inventa una visuale di schiena molto personale, che non ha precursori diretti se non nella lunga serie di statue greco romane, come l’”Ermafrodito dormiente” (II sec. d.C) della collezione Borghese a Roma.
Anche lo specchio che tiene in mano il Cupido, viene ripreso dal rinascimento veneto e dai quadri di Rubens. Le tele del fiammingo, che con la corte spagnola, ebbe rapporti importanti, non passarono di certo inosservate a Velázquez, meritevole però di aver dato vita a una fanciulla con un punto vita stretto e un'anca sporgente, molto diversa dalle rotondità femminili proposte da Rubens.
Anche questa "Venere", che rivolge lo sguardo all'osservatore in modo indiretto, attraverso lo specchio, rimanda di sicuro alla storia “privata” di Velàzquez con la madre di Antonio. Agli albori del movimento femminista, nel 1914, tanto calore erotico infastidì la suffragetta Mary Richardson che, con un coltello da macellaio, produsse numerosi squarci sulla Venere di Velàzquez, affermando che non gradiva “il modo in cui gli uomini guardavano l'opera a bocca spalancata tutto il giorno”.

Io Velàzquez, sono anche consapevole che gli artisti per tutti i lori atti di consapevolezza e di forza, quando provano ad affermare sé stessi, spesso pagano un prezzo altissimo
Tomaso Montanari

A metà Novecento, gli studi di uno storico dell’arte spagnolo portarono in luce l'importanza di emblematico dipinto di Velàzquez, nel quale risulta evidente come, negli ultimi anni di vita, l'artista consapevole delle sue doti poteva sfidare i grandi dei della pittura che lo avevano ispirato: Tiziano e Rubens. 
Si tratta de “La fabbrica di arazzi di Santa Isabella in Madrid”,conosciuto anche come “Le filatrici”, una scena di genere interpretata, fino ad allora, come uno dei suoi famosi bodegón, con i quali aveva esordito giovanissimo raggiungendo risultati d'eccellenza. In realtà, Velàzquez aveva rappresentato “La favola di Aracne” (1657; Museo del Prado, Madrid), mito greco narrato nelle "Metamorfosi" di Ovidio che aveva affascinato anche Rubens.  
Ancora una volta, la costruzione di un'opera di Velázquez pone enigmi allo spettatore e lo immerge in un gioco di segni che coordinano sia piani spaziali, sia temporali. Ne “La favola di Aracne”, infatti, il messaggio ultimo è cifrato sullo sfondo, in lontananza rispetto alle "filatrici" in primo piano. 
Tra le cinque donne della scena, due catturano l'attenzione dello spettatore, l'anziana in penombra a sinistra che aziona la ruota della spolatrice e una giovane ragazza che raccoglie il filo nell'aspa in piena luce a destra. Gli sguardi delle due donne al lavoro non si incontrano, la posa plastica della giovane evoca sensibilmente gli "Ignudi" della Cappella Sistina, mentre la ruota che girà e non mostra i raggi, davanti alla vecchia, è un'ardita rappresentazione del movimento, diremmo oggi, "futurista".  
Sullo sfondo, una luce prepotente e teatrale illumina un proscenio occupato da una viola da gamba e una serie di figure tra le quali, una dama guarda verso lo spettatore  invitandolo a superare il mondo delle filatrici. Qui, la dea Atena armata con elmo, scudo e lancia, ha appena smessi i panni ingannevoli dell'anziana filatrice per rivelare la sua identità divina alla stupita Aracne che aveva osato sfidarla. 
A differenza di Velázquez, nel 1636, Rubens trattava la punizione inflitta da Atena, offesa dalla sfrontatezza dell'umana, per cui, trasformava la giovane nell'animale tessitore per eccellenza, il ragno. Nel quadro di Velàzquez, inoltre, Aracne si manifesta davanti all'arazzo appeso alle spalle con il quale aveva sfidato Atena, dove appare la forma sfuggente di un toro che trascina un corpo di donna. Il "quadro nel quadro", riproduce il "Ratto d'Europa" (1560-'62; Isabella Stewart-Gardner Museum, Boston) di Tiziano, quadro che apparteneva alla collezione di Filippo IV. Il toro dunque, è Zeus, il dio che la condurrà Europa verso un triste destino. 
Velàzquez pone l'accento sulle due donne concorrenti, irrimediabilmente diverse, una bellissima e una vecchia, unite dal lavoro. 

L'arte torna prepotentemente protagonista dell'opera, elevata e quasi monumentale nella semplice magnificenza della realtà quotidiana in primo piano

Negli ultimi anni di vita, Velàzquez cercava in tutti i modi di migliorare il proprio rango sociale entrando tra la nobiltà nell'Ordine di Santiago, conferitogli solo poco prima di morire. Il pittore, attraverso i suoi massimi maestri, Rubens e Tiziano, con "La favola di Aracne" afferma che solo con dedizione, passione e maestria, l'uomo può  spingere il suo atto creativo verso la dimensione sacra del divino, ma nello stesso tempo, deve essere consapevole che la sfida più alta comporta anche un prezzo oneroso.

Vita, teatro e arte si confondono, la finzione non è meno vera della realtà

Il quadro, non datato e non dipinto per il re, ma per il cortigiano Pedro de Arce, viene generalmente assegnato agli ultimi anni di vita del pittore, come un suo testamento, culmine dell'arte Barocca.
"Mercurio e Argo" (1659; Museo del Prado, Madrid), realizzato per Salone degli Specchi dell'Alcazar di Madrid, en pendant con una serie di quattro, di cui questo è l'unico superstite, dato il formato doveva essere un soprafinestra. 
Tratto dalle "Metamorfosi" di Ovidio, Argo è il pastore dai cento occhi, dotato di grande forza, incaricato da Giunone di sorvegliare la giovane Io, amata da Giove, che aveva trasformata in giumenta. Mercurio ha appena fatto addormentare Argo con il suo flauto, qui posto a terra, per poi ucciderlo con una spada che sta sfoderando su comando di Giove. 
La scena si svolge nella penombra di un pomeriggio spagnolo, in un'atmosfera di "quiete, prima della tempesta"; il silenzio della scena è molto lontano dai toni roboanti dei super eroi dipinti da Rubens.

Velàzquez sceglie la calma, un modo anomalo di rappresentare il mito, con due eroi dei quali non mostra nemmeno il volto

Alla morte del pittore, nel 1660, lo scenario, spagnolo era profondamente mutato: da un anno, il Trattato dei Pirenei aveva sancito il sostanziale trasferimento alla Francia di quell'egemonia sull'Europa che la Spagna aveva esercitato per oltre un secolo, ma che si era frantumata in una sequenza di guerre e sollevazioni tanto lunghe e travagliate, da meritare la definizione di "Siglo de hierro", secolo di ferro

Tuttavia, questo secolo era stato per le lettere e le arti un vero e proprio "Secolo d'oro", l'epoca di Cervantes, Gongora, Gracian, Calderon de la Barca, Quevedo, Lope de Vega, e per la pittura, il tempo dell'incontrastato dominio di Diego Velàzquez 

Velàzquez. L'ombra della vita, di Tomaso Montanari, regia Luca Criscenti, fotografia Francesco Lo Gullo, montaggio Emanuele Redondi, Anjan Di Leonard. Prodotto da Land Comunicazioni, 4 puntate x 58min., formato 4k, 2019 Italia
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