Speciale legalità: parla Maurizio Landini

Il bello del lavoro sindacale è il contatto con gli altri

Intervista a Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom Cgil. “Se volessi spiegare a un bambino che cos’è il sindacato, cosa vuol dire fare il sindacalista, gli direi che è il modo di affrontare non da solo i problemi che hai; ma se hai un problema, di provare a vedere anche insieme ad altri che hanno il tuo stesso problema, se puoi affrontarlo meglio.”

“Ho iniziato a lavorare che avevo 15 anni. [...] Il mio mestiere era fare il saldatore, ma lo facevamo all’aperto, nei cantieri. Quindi di inverno, di giorno, faceva molto freddo [...]. La cosa che mi portò a fare il sindacato era che noi rivendicavamo la possibilità di avere riconosciuto questo disagio. [...] I dirigenti dell’impresa di allora ci spiegarono che avevamo ragione, che però dovevamo tenere conto del problema della cooperativa. [...] Io dissi che capivo il problema, che avevo la stessa tessera in tasca, ma avevo freddo uguale. Lì capii che fare il delegato vuol dire fare gli interessi di chi lavora e non guardare in faccia altre cose. [...] E da lì poi è iniziato il mio impegno.”

“Il delegato che mi chiese di iscrivermi al sindacato, e poi di fare anche un’attività sindacale, mi disse una cosa che mi è rimasta molto impressa: chi fa il delegato sindacale deve conoscere molto bene la fabbrica, la devi conoscere più tu di chi dirige l’azienda, e devi sapere che fare il sindacato significa cambiare la fabbrica, ma avere anche un’idea di cambiare il mondo fuori dalla fabbrica.”

“Gli anni ’70 sono stati gli anni delle conquiste e della forza contrattuale nei luoghi di lavoro, lo statuto dei lavoratori o il contratto nazionale, e una capacità anche di contrattazione. Dal 1980 in poi, anche per i cambiamenti che ci sono stati all’interno delle imprese, è cambiato anche il ruolo e il significato del sindacato, con le divisioni al suo interno, con delle maggiori difficoltà, e con una minore capacità di capire quello che stava succedendo. Gli anni ’90 sono stati gli anni delle crisi: io ricordo, quando da poco tempo facevo il funzionario sindacale, che le prime assemblee erano per la cassa integrazione, per la chiusura di fabbriche, per licenziamenti. Quindi erano una fase difficile. Il bello, diciamo così, del lavoro sindacale, almeno dal mio punto di vista, era il contatto con le persone: era la possibilità di parlare, di discutere, di capire i problemi… Io ho imparato tanto dalle persone che lavoravano.”

“È indubbio che in questi anni c’è stata una frantumazione, cioè la precarietà. [...] Quando ho cominciato a lavorare io, bene o male tu avevi nella tua testa l’idea di migliorare la tua vita, cioè tu lavorando non eri povero, potevi costruirti una vita, potevi costruire qualcosa, ti realizzavi nel lavoro che facevi. Oggi sei di fronte al fatto che questa assenza di regole, questa incertezza, questa insicurezza crea paura, non dà futuro, crea un’incertezza.”

“La frantumazione dei processi lavorativi non ha prodotto solo un abbassamento del livello del lavoro, ma ha prodotto anche il fatto – lo dico così – che interi pezzi di economia reale molto spesso sono in mano alla malavita organizzata. Perché ormai il sistema degli appalti, dei sottoappalti, dei subappalti, delle cooperative, in tanti pezzi dell’economia stanno diventando sistemi di infiltrazione anche di questo genere.”

“Legalità in un luogo di lavoro, in un cantiere, in una fabbrica, vuol dire innanzi tutto applicare i contratti nazionali di lavoro, vuol dire applicare le leggi. [...] Accanto ad un certo numero di dipendenti della grande azienda, c’è una quantità di imprese in appalto, in subappalto che lavorano, che non ha precedenti. [...] L’appalto, il subappalto, portano a perdere il controllo di quello che concretamente avviene. Allora quando si parla di legalità nel lavoro, secondo me significa anche ridare un senso al lavoro, di dare anche strumenti per affrontare questioni di questo genere.”

“Io penso che di fronte a questa crisi il sindacato debba pensare a una dimensione anche diversa. Cioè, la dimensione non può più essere locale o nazionale. [...] È stata costruita un’Europa della moneta, ma non è stata costruita un’Europa sociale, non c’è un sistema unico comune. Allora, anche in termini di diritti, è indubbio che il sindacato, se non è in grado di costruire dei diritti anche a livello europeo, una dimensione europea, non può sostanzialmente avere un futuro. Perché un miliardo e mezzo di persone senza diritti che lavorano, che competono con 500 milioni che hanno diritti: non era mai successo. [...] Dal punto di vista sindacale, sempre di più c’è bisogno di un sindacato europeo, di un sindacato mondiale, di un’estensione di diritti anche sostanzialmente dove non ci sono. E per questo servono anche politiche dei governi.”