Pietro Greco. La beffa di Piltdown

Un anello di congiunzione. Ma anche no...

Ufficialmente la storia inizia il 18 dicembre 1912, quando Arthur Smith Woodward, custode del Dipartimento di Geologia del British Museum di Londra, e Charles Dawson, un geologo dilettante, annunciano in una conferenza presso la prestigiosa Geological Society di aver trovato l’anello mancante tra l’uomo e la scimmia. Hanno tra le mani pezzi di un cranio umano; una mandibola appartenente a un orangutan; dei molari umani, come dire, molto usati; dei frammenti di denti di ippopotamo, di cervo e di castoro, più pezzetti di elefanti, mastodonti e rinoceronti. Il tutto ben confezionato a formare un unico reperto, con una scatola cranica pari a due terzi di quella di un uomo moderno. L’improbabile testa di un essere a lungo cercato, dopo che Charles Darwin aveva ipotizzato un legame di parentela, un antenato comune, tra l’uomo e grandi scimmie antropomorfe. Lo abbiamo finalmente trovato, l’anello di congiunzione, proclamano con orgoglio Woodward e Dawson. A Piltdown, East Sussex.

Eccolo, dunque “l’uomo di Piltdown” e alzano, trionfanti, il trofeo. Quella testa era attesa. Perché ben si inquadrava nella teoria allora imperante in Inghilterra secondo cui l’evoluzione dell’uomo dalle scimmie era iniziata proprio con lo sviluppo del cervello. In realtà, alcuni studiosi la contestarono subito e apertamente: l’inglese David Waterson, il francese Marcellin Boule, l’americano Gerrit Smith Miller. Ma non ci fu nulla da fare: fino al 21 novembre 1953, per 41 lunghi anni “l’uomo di Piltdown” fu per la maggioranza degli antropologi l’improbabile anello mancante tra l’uomo e la scimmia. Anche perché Dawson annunciò poco dopo il ritrovamento di uno scheletro analogo, di cui ci sono documentazioni, in un sito a due chilometri dal primo. Era “l’uomo di Piltdown 2”.

I dubbi ritornano 11 anni dopo: la testa dell’”uomo di Piltdown” è molto diversa da quella dell’”uomo di Pechino”, appartenente effettivamente a un membro del genere Homo, l’erectus in particolare, scoperto nel 1923 e risalente al Pleistocene, 700.000 anni fa e forse più. Dawson era nel frattempo morto. Ma Woodward nel 1944 propose la sua spiegazione, momentaneamente vincente: si tratta di due linee evolutive diverse. La prima parte della verità venne a galla solo il 21 novembre 1953, quando Joseph Weiner e altri suoi colleghi pubblicarono sulla rivista dello stesso British Museum che ospitava il reperto le prove scientifiche che quello di Piltdown non era il cranio dell’uomo/scimmia, ma una clamorosa ed evidente contraffazione. Da allora la vicenda è nota come la “beffa di Piltdown”. Già, ma chi è l’autore di quell’improbabile scherzetto? A questa domanda ha risposto in maniera abbastanza convincente un grande paleoantropologo e storico della paleoantropologia, Stephen Jay Gould. È stato Dawson, quasi certamente con la complicità di Woodward. Ma c’è stato anche un terzo imbroglione, un francese: Pierre Teilhard de Chardin. Un giovane destinato a diventare un grande teorico dell’evoluzione. Che non ha mai rivelato la verità, neppure quando era ormai uno scienziato noto in tutto il mondo.  Perché ha taciuto, de Chardin, mettendo a rischio la sua credibilità? Beh è chiaro, sostiene Gould: per non ostacolare la sua carriera. Una più recente indagine individua nel solo Dawson il colpevole. Ma, probabilmente, la verità assoluta non la sapremo mai.   

Una cosa “l’uomo di Piltdown” ce l’ha insegnata. Anzi, due. Anche gli scienziati possono imbrogliare: per vanagloria e per fare carriera.  L’imbroglio ha una maggiore probabilità di riuscire, ingannando la comunità scientifica anche decine di anni, se risponde, anche in maniera grossolana, alle teorie più alla moda. C’è una difesa? Certo che c’è. Esercitare sempre quello che il sociologo americano Robert Merton chiamava “scetticismo sistematico”. E che potremmo tradurre così: provare, prima di credere.