La tragica satira di Alessandro Magnasco

Un anticonformista del Settecento

Nato a Genova, Alessandro Magnasco (1667-1749), detto il Lissandrino, è stato il pittore più anticonformista del Settecento italiano, un uomo vicino agli umili che guardava la realtà del momento con un occhio e uno spirito particolarmente critico, in anticipo su molte idee dell’Illuminismo.

Malgrado la novità dei suoi contenuti, da un punto di vista stilistico gli storici dell’arte hanno ricondotto l’artificio Manierista delle ambientazioni pittoriche di Magnasco, per nulla “naturalistiche”, alla pittura di genere seicentesca 

Alessandro Magnasco era un figlio d’arte: nato come “pittore di genere”, considerato minore, l'artista si affermava facendosi conoscere per il talento e una sensibilità particolare dalla quale scaturiva la sua satira inedita e senza precedenti.
In un andirivieni tra Genova, Milano e Firenze, dove sposava Caterina Borea, Magnasco trascorre la vita in stretto contatto con una committenza illuminata e con colleghi artisti di primo piano, come l’amico Sebastiano Ricci (1659–1734), che lo accoglieva nei soggiorni veneziani. Il pittore, inoltre, manterrà costanti rapporti con Genova, dove trascorse gli ultimi anni di vita.
Trasferito giovanissimo a Milano (1682-1703), accanto ai pochi ritratti di grande qualità, improntati su una severa analisi del reale nel solco della tradizione anti celebrativa della ritrattistica lombarda (I ritratti di Fra' Galgario, ragione e sentimento), Magnasco mette a punto il suo particolare repertorio iconografico dedicato al mondo ecclesiastico, un ricco catalogo di immagini che rimarrà tale subendo negli anni solo varianti di stile. 
A Milano, dove lavora nella bottega di Filippo Abbiati (1640–1715), il più barocco e berniniano tra gli artisti in città, Magnasco apprendeva dal maestro, formato a Venezia, il gusto per i drammatici contrasti di luce e ombra, come pure l’antiretorica delle figure studiate con la tipica naturalezza dello stile lagunare, molto influente al nord grazie agli scambi con la Serenissima
Il repertorio di Magnasco traeva spunto dalla pittura di genere nata sulle orme dei “bamboccianti” fiamminghi e olandesi seicenteschi; fin da giovane, fu attratto dalla libertà espressiva, dal trovare ai margini della società una grande ricchezza di soggetti. 

Gli stessi ruffiani, ladri, giocatori, bari, prostitute, mendicanti e vagabondi, che nel Seicento affollavano le tele dei “bambocci”, tornano nella sua nuova versione moraleggiante in veste di inquisitori, carcerieri, monaci, preti, suore, saccheggiatori e pellegrini 

Anche se lasciava Genova a soli quindici anni circa, gli occhi di Magnasco si erano aperti nella splendida cornice pittorica di una città tra le più vivaci capitali del Barocco. Con il padre Stefano Magnasco, il giovane cresceva nel ricco contesto di dimore patrizie e chiese sfavillanti affrescate da squisiti decoratori; da Valerio Castello (1624–1659), maestro del padre, a Gregorio De Ferrari e Domenico Piola (I Rolli di Genova). Malgrado la poca documentazione sulla primissima attività del pittore, è certo che nel fecondo clima genovese trovava anche quelle specialità fiamminghe a lui care, in un proliferare di stampe e romanzi picareschi, diffusissimi in Italia e accessibili nelle ricche collezioni degli aristocratici locali. 
La sua strana e bizzarra umanità, Magnasco la studiò anche alla corte di Ferdinando de' Medici, appassionato collezionista che accoglieva il pittore a Firenze (1703-‘1709), per un po’ di anni. Nelle Collezioni medicee scopriva opere di artisti e incisori che, tra Sei e Settecento si erano dedicati allo sviluppo della pittura cosiddetta pittura "caricata e giocosa"; da Stefano della Bella, Baccio del Bianco, Jacques Callot a Salvator Rosa, tutti avevano frequentato la corte degli ultimi granduchi di Toscana. Sempre nel soggiorno fiorentino, inoltre, Magnasco, conosceva Giuseppe Maria Crespi che, tra il 1708 e il ’09, soggiornava presso il Granduca eseguendo capolavori quali “La strage degli innocenti” e “La Fiera di Poggio a Cajano”, una scena di guizzi luminosi su un’imprimitura scura che sicuramente impressionò l’artista (Giuseppe Maria Crespi, frammenti di vita quotidiana).
Le sue opere del primo periodo milanese si rivolgono ad una committenza che apprezza immagini di severo rigore, caratterizzate da un cromatismo austero e da un violento e drammatico emergere delle figure dall’oscurità. 

I soggetti ecclesiastici, che non hanno nessun precedente figurativo nel panorama della pittura settecentesca, presuppongono una committenza vivamente interessata ai dibattiti in corso sulle problematiche religiose

Nel primo Settecento milanese, Magnasco si faceva strada in un ambiente intellettuale che poneva le premesse della cultura illuminista: il primato della ragione, la critica alle credenze tradizionali, l’interesse per il progresso della scienza, muovevano una nuova visione della morale sociale e cristiana. 
Questi movimenti coinvolgevano tutta l’élite intellettuale europea, con la diffusione di libri, manoscritti e pamphlets clandestini che, fra le resistenze della cultura conservatrice e l’opposizione delle istituzioni, trovava in primo piano proprio la Chiesa. Magnasco dimostra una profonda consapevolezza e un vitale rapporto con una cultura che stava mettendo in crisi molte certezze per avventurarsi su nuovi terreni di indagine e discussione 
A Milano, città in rapida trasformazione politica ed economica, Magnasco passò la maggior parte della sua vita a contatto con importanti figure di committenti: tra gli Arese, i Borromeo e i Visconti, aleggiavano le idee di intellettuali che fornivano spunti all’intervento moraleggiante di Magnasco, pronto a tradurli in immagini inedite. I suoi dipinti di tema ecclesiastico, furono realizzati su richiesta di una committenza coinvolta nelle problematiche dell’educazione religiosa. In primis, le riflessioni sugli ordini conventuali di Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), presente a Milano dal 1695 al 1700, espressioni di un pensiero razionale e “illuminato”. 
Un’altra voce che prese parte a queste discussioni, quella del frate Marco Migliorini, noto come Gaetano Maria da Bergamo (1672-1753) che, nel 1750, un anno dopo la scomparsa di Magnasco, pubblicò le “Istruzioni morali, ascetiche, sopra la povertà de’ frati minori cappuccini”, una summa di idee espresse nelle predicazioni che il religioso andava svolgendo da anni in Lombardia. Acceso e fervente sostenitore della povertà monacale che esortava di spogliarsi di ogni bene superfluo, in nome di un umile ideale di vita, il frate capuccino scagliava i suoi accesi sermoni proprio contro la dissolutezza del clero, richiamato a un ordine morale che andava svanendo in chiacchiere, inchini e vesti sontuose. 
Grande importanza nella formazione del pittore hanno avuto anche le opere teatrali del poeta milanese Carlo Maria Maggi (1630-1699). 

Opera rivelatrice del coinvolgimento di Magnasco nelle opere del Maggi drammaturgo, la “Satira del nobile in miseria”

In un interno povero e nudo, un allampanato gentiluomo dalla veste rattoppata siede su rozze panche ed esibisce un elmo antico, mentre stringendo fieramente l’elsa della lunga spada srotola una pergamena con l’albero genealogico. Alle spalle, una figura lo deride mostrandogli la lingua e facendogli le corna. Il disprezzo per una nobiltà impoverita, ma ancora piena di prosopopea per il proprio blasone e per le glorie degli antenati, è uno dei motivi conduttori del teatro satirico milanese del Maggi. Il ridicolo personaggio di Magnasco assomiglia a quello messo in scena dal drammaturgo ne “Il manco male" (1695); forse, su richiesta di un committente particolarmente sensibile a queste tematiche, l’artista ha fissato una scena della commedia dialettale.
In anticipo anche sulle tematiche diffuse a stampa a fine Settecento da Francisco Goya (Il sonno della ragione genera mostri, 1797), “La dissipazione e l’ignoranza distruggono le arti e le scienze” è una nota tela moraleggiante, molto inquietante e di raffinata fattura cromatica. 
Un asino, simbolo d’ignoranza e una scrofa, allegoria della dissipazione, s’avventano con ferocia su cavalletti, libri, compassi e mappamondi, che alludono alle arti e alle scienze, trascinando a terra il pittore e lo scienziato. Con loro, viene travolta anche l’allegoria del Tempo, un vecchio alato che, sconfitto, ferito e umiliato dall’Ignoranza, se ne va via e appoggiandosi alle stampelle, con guardo sconsolato, si gira un’ultima volta verso lo sfacelo ed esce dalla tela a sinistra. 

Sullo sfondo, un uomo omaggia con l’incenso un asino seduto su un trono, un chiaro messaggio di come spesso l’Ignoranza appena sale al potere fa proseliti

Gli specchi, onnipresenti nel dipinto, suggeriscono l’identità dei principali responsabili di questa devastazione: in primis, l’allegoria della Vanità, simboleggiata dal cinghiale che si ammira sulla superficie riflettente, seguito da un’aristocrazia frivola e disimpegnata, riunita attorno a un tavolo per perdere tempo. Tra le figure, una cortigiana e un prete che s’abbandona lascivo sulle spalle della donna, un cavaliere che nelle baldorie lascia penzolare la sua spada fuori dalla sedia, un giurista affaccendato ad osservare la partita a carte tra la padrona di casa e un giovane damerino. 
Dipinta nella seconda metà degli anni Trenta del Settecento, la tela di Magnasco descrive la nobile e decaduta aristocrazia del tempo con occhio cinico; lo stile maturo esibisce una pennellata agile, veloce e spesso grumosa che gli permette di costruire le tetre figure come comparse di un dramma teatrale. 

Non è la miseria materiale, come nei quadri di Ceruti, che prende il sopravvento ai nostri occhi, ma l’aridità morale dei dipinti di Magnasco

Nella fascinazione delle tenebre, nella dissoluzione delle forme e nel severo discorso morale di gran parte della sua opera si evidenzia il dissenso dell’artista verso la frivola cultura figurativa del Rococò
Magnasco evoca la miseria spirituale con composizioni lugubri; i vecchi monaci dalle tonache logore e consunte che cercano di sopravvivere in una realtà fatta di stenti, privazioni e sofferenze abbondano nella sua produzione. “Preghiera davanti a una cappella campestre”, mostra i pellegrini in sosta durante il cammino per pregare davanti a una cappella di montagna. Nell’opera, Magnasco vuole sottolineare quanto sia forte il sentimento religioso di coloro che stanno intraprendendo il pellegrinaggio tra sentieri tortuosi: malgrado la fatica e le privazioni del viaggio, i pellegrini trovano le energie per raccogliersi attorno al prete e recitare una preghiera.
Nella sua critica, più morale che politica, Magnasco, non risparmia nessuno: gli ambienti clericali e monastici sono spesso trasformati in residenze di piacere dove la futilità ha preso il posto della preghiera e del raccoglimento. In alcuni dipinti, come “La cioccolata”, bevanda accessibile solo alle classi più agiate, l’artista si rivolge con ironia alle monache che non solo godono di prelibatezze, ma abitano sontuosi interni signorili e in alcune sue opere si dedicano al ricamo, come le signore aristocratiche. 
Tra le numerosissime scene di vita monastica, spicca una serie, realizzata in diverse versioni, quali le “Riunioni di quaccheri” e le “Sinagoghe” dipinte nei soggiorni tra Milano, Firenze e Genova (1735-1749). 

Con precisi riferimenti alla realtà, Magnasco guarda a un gruppo di quaccheri inglesi, presenti a Milano nella seconda metà del Seicento, città che già ospitava una forte comunità ebraica

Questa setta, nata in Inghilterra, contemplava la predicazione delle donne; con una folta pubblicistica e con predicazioni nella sinagoga di Milano, i quaccueri erano molto vicini alla comunità ebraica.
"L’interno della Sinagoga”, presenta una struttura compositiva razionale, dall’architettura, all’arredo, alle figure, tutti gli elementi della scena si dispongono in un calibrato gioco di simmetrie e rispondenze; la calcolata distribuzione delle macchie di rosso e di azzurro, nella brulicante folla di figure, indica i percorsi del coinvolgimento emotivo. 
Queste opere si collocano anche nel vivo di un dibattito che, nella prima metà del Settecento, vide Genova e i suoi governanti pronti a difendere la comunità ebraica con spregiudicato pragmatismo; infatti, l’aristocrazia di governo, nonostante le pressanti richieste delle autorità ecclesiastiche di espellere gli ebrei dal territorio dello stato, sostenne le loro fitte attività commerciali a beneficio dell’erario.

I paesaggi di Magnasco recuperano il gusto seicentesco per il “pittoresco”, in aperta polemica con la visione di una natura rarefatta ed artificiosa diffusa, all’epoca, soprattutto a Roma, dai pittori dell’Arcadia

Le ambientazioni immaginifiche ed evocative di Magnasco, erano appositamente realizzate da pittori scenografi al suo servizio fin dai primi anni trascorsi a Milano; in particolare, si avvalse della stretta collaborazione del paesista marchigiano Francesco Peruzzini (1643–1724) e del "ruinista", Clemente Spera (1662-1742).
La proficua collaborazione, destinata a durare oltre vent’anni, con il paesista Peruzzini, restituiva quegli scenari mossi dal vento, dove Magnasco inseriva le sue figurine anch’esse guizzanti di pennellate veloci. 
Con Peruzzini l’artista elabora il “pittoresco” in rappresentazioni estreme causate da sconvolgimenti naturali. Magnasco tornerà più volte su scenari marini, usando la formula che Peruzzini aveva per lui codificato: lunghe insenature disposte con fondali che chiudono l’orizzonte in prospettiva, verso città fortificate. 

Consapevoli della tradizione, Magnasco e Peruzzini adottano presupposti formali che saranno ammirati soprattutto dalla cultura proto romantica di fine Settecento

Un esempio, “Burrasca con frati e scaricatori”, composizione dai toni scuri risolta con un’accurata descrizione minuta di onde, fronde arboree e dettagli, nonché di nuvole volumetriche, memori del primo Barocco. Con la morte di Peruzzini, questo stile ancora seicentesco andrà a decadere a favore di una totale disgregazione del dato descrittivo a cui giunge nella piena maturità. 
Opera del vecchio Magnasco, “Battesimo di Cristo” (1735-’40); qui il pittore va oltre il carattere tipicamente decorativo e fiammingo del “genere” per cogliere l’intensità emotiva della scena lontana, tipica dalle rasserenanti visioni di “paesi” e “marine” settecentesche contemporanee. Cespugli e fronde sono rappresentati sommariamente a veloci colpi di pennello, le nubi rese in tocchi svirgolati e grumosi e le onde marine con velocissimi guizzi e filamenti di luce. Oltre allo stile pittorico, tipica della maturità di Magnasco è anche l’intonazione cromatica basata su tonalità di marrone e verde, ma soprattutto sugli azzurri intensi del cielo. 
Dalle analisi dei pigmenti, oggi sappiamo che l’artista usava il Blu di Prussia, il primo colore chimico realizzato in Germania nel 1704 e in uso nella pittura europea della prima metà del Settecento.

In Italia, il Blu di Prussia era adottato solo dai veneziani e da Magnasco stesso 

Il sodalizio tra Magnasco e Peruzzini si rinnova tra il 1703 e il ‘09 circa, alla corte di Ferdinando de’ Medici, dove Peruzzini lavora con il pittore veneto Sebastiano Ricci, qui impegnato con il nipote Marco in alcuni affreschi. Come Magnasco, che aveva conosciuto Ricci a Milano, già a fine Seicento, anche Peruzzini subiva la forte suggestione dell’artista veneto, ossia la rapidità di esecuzione e lo stile nervoso e guizzante. 
Degli ultimi anni trascorsi tra Milano e Genova, si colloca “Il furto sacrilego”, una tela dove espone la vicenda di un fatto di cronaca avvenuto la notte del 6 gennaio 1731, quando alcuni ladri si introducono nella chiesa di “Santa Maria di Campomorto” a Siziano (Pavia) per rubarne i tesori. Catturati, i malviventi furono impiccati.
Magnasco descrive il furto, fino alla macabra apparizione degli scheletri che emergono dalla cripta armati di torce per difendere la chiesa. L’episodio fu riscoperto solo nel 1938, grazie alla pubblicazione di precisi documenti sulle fasi del processo; Magnasco riprese il fatto di cronaca fedele proprio a queste testimonianze trascritte degli stessi malfattori. Ma l’artista si emancipa dal rendiconto impassibile e pedagogico tipico degli ex voto, ed attinge alla ricchezza emotiva e drammatica del racconto, proponendone una rappresentazione degna delle danze macabre di Goya, avventurandosi nelle profondità insondabili della coscienza umana.

Nel 1743, ammalato, Magnasco nominò la figlia sua procuratrice ed erede trasmettendole piena potestà sul suo denaro investito nel Banco di San Giorgio

I suoi problemi di salute, tuttavia, vennero superati e Magnasco morì a Genova a ottantadue anni. Una delle sue ultime opere, il celebre “Trattenimento in un giardino di Albaro”, dove si raffigura decorosamente vestito da gentiluomo, con giacca, polsini di pizzo, cravatta bianca e tricorno, mentre ritrae i nobili Saluzzo sulla terrazza della loro villa.

La composizione illustra la spensierata giornata di un gruppo di patrizi in uno splendido giardino

I personaggi, che si stagliano in primo piano, come un fregio lungo il muro di cinta, sono colti in differenti atteggiamenti: alcune coppie danzano, le dame ascoltano il discorso di un vecchio signore e di un frate, gli uomini giocano a carte seduti attorno a un tavolo. Oltre il muro si apre una splendida veduta dell’entroterra ligure. Il dipinto, estremamente descrittivo e realizzato con piccole e veloci pennellate, mostra anche alcune costruzioni, come la “Basilica dell’Assunta” sul colle di Carignano, di cui si vede  l’imponente profilo della cupola e poco discosta, ma più in distanza e illuminata dal sole, l’inconfondibile e slanciata "Torre della Lanterna". 

FOTO DI COPERTINA
Alessandro Magnasco, Scena di un tribunale di Inquisizione, 1710-’20, olio su tela, 82x44 cm., Kunsthistorisches Museum, Vienna