Ritratto di Artemisia Gentileschi

Ritratto di Artemisia Gentileschi

Da un racconto di Elisabetta Rasy

Ritratto di Artemisia Gentileschi
Nel suo libro "Le disobbedienti, Storie di sei donne che hanno cambiato l’arte", la scrittrice Elisabetta Rasy, racconta anche la vita di Artemisia Gentileschi, pittrice, o "pittora" come lei stessa si definiva, di scuola caravaggesca. Oggi considerata un’icona femminista ante litteram, un’artista rivoluzionaria capace di denunciare lo stupro subìto e di trasporre sulle sue tele le conseguenze psicologiche nei molti dipinti dedicati all'edificante tema delle eroine bibliche. Giuditta, Giaele, Betsabea o Ester,  incuranti del pericolo e animate da un desiderio turbato e vendicativo, trionfano sul crudele nemico e affermano il proprio diritto all'interno della società. 

Artemisia Gentileschi, "l'unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, colore, impasto e simili essenzialità"
Roberto Longhi

In questa intervista, Rasy approfondisce gli aspetti della moderna femminilità di Artemisia Gentileschi, un'artista dimenticata per secoli e riscoperta solo nel 1916 da Roberto Longhi che, nell'ambito degli studi sui caravaggeschi, pubblicava il pionieristico saggio, "Gentileschi padre e figlia" (Longhi e Caravaggio, artista moderno e 'popolare').


Artemisia Gentileschi, Autoritratto come suonatrice di liuto, olio su tela, 1615-'17, Curtis Galleries, Minneapolis

Chi era Artemisia Gentileschi? Al pari dei colleghi maschi, la 'pittora' viaggiava per le corti italiane ed europee alla ricerca di commissioni che valorizzassero in suo talento. Forse commissionato dal Granduca di Firenze Cosimo II, in questo autoritratto Artemisia suona il liuto, è dotata di generose forme, veste un abito di tessuto pregiato e porta un turbante alla moda. Il suonatore è un'immagine molto frequente nella produzione dei pittori caravaggeschi che utilizzavano gli strumenti musicali per alludere ai piaceri e alla sensualità.
Tuttavia, Artemisia ha saputo cucire ottime relazioni professionali ed amicali mantenendo un completo riservo tanto che, ad oggi, la sua biografia presenta dei veri e propri buchi neri. 

Artemisia Gentileschi ha fatto l'artista perché lo desiderava più di ogni altra cosa e, nello stesso tempo, ha saputo conciliare la sua attività con la vita familiare di un marito e quattro figli

Artemisia Lomi Gentileschi (1593-1653), nata a Roma, figlia di Orazio e Prudenzia Montoni, primogenita di sei figli, approcciò la pittura in un momento in cui Roma era un grande centro artistico, un cantiere di committenze che in pochi decenni  trasformarono l'antica e angusta città medievale, in un nuovo e funzionale capoluogo con piazze, fontane e sfarzose residenze gentilizie. Anche il padre Orazio Gentileschi (1563-1639), alla fine del Cinquecento, si era trasferito in città portando i suoi pennelli nelle prestigiose imprese decorative di Gregorio e Sisto V (Orazio Gentileschi: L'annunciazione di un caravaggesco).
Nel 1605, Artemisia rimase orfana di madre e fu probabilmente allora che si avvicinò alla pittura, stimolata dal talento del padre che guardava affascinata nel suo studio di casa. 
Sotto la guida di Orazio, la precoce Artemisia imparava i segreti del mestiere: macinare i colori, purificare olii, confezionare pennelli e preparare tele, perizie che metabolizzò giovanissima
Impossibilitata dal padre ad accedere al patrimonio artistico romano, Artemisia si specializzò sulla copia di xilografie e stampe di Orazio e contestualmente, subentrava alla madre nella conduzione familiare della casa e dei tre fratelli minori. 
In questi anni, Artemisia conosce la pittura di Caravaggio, molto chiacchierato in città per gli "scandali" suscitati dal mancato "decoro" di alcune pale d'altare. Sappiamo che l'artista lombardo si recava spesso nello studio di Orazio e se anche Artemisia, in quanto donna, rimaneva confinata dentro le sue stanze, il fascino della pittura caravaggesca arrivò alla giovane filtrato dal padre. 
Intorno al 1609, da discepola, Artemisia diventa la collaboratrice di Orazio e inizia ad intervenire sulle tele paterne, per poi cimentarsi, in tutta autonomia, in lavori personali dove dimostra di aver interiorizzato i preziosi insegnamenti. 


Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni, 1610 ca., olio su tela, 170x119cm., Collezione Graf von Schönborn, Pommersfelden

Opera firmata e datata, con questo soggetto biblico di Susanna e i vecchioni, Artemisia suggella l'ingresso nel mondo dell'arte. Sotto la guida paterna, la pittrice accosta al naturalismo di Caravaggio la suggestione di Annibale Carracci (Annibale Carracci: Natura e Ideale), soprattutto nel virtuosismo della posa avvitata di Susanna. Le sottili ombreggiature operate sul nudo della protagonista rendono realistici certi particolari, come il ventre e il seno, solitamente idealizzati dagli artisti del tempo. L'essenzialità del quadro, rispetto alla classica iconografia con ancelle, vasche o ruscelli, si sviluppa in modo piramidale e la sensazione di intrappolamento da parte di Susanna, è resa dal muro compatto alle sue spalle. 
L'innato talento della giovane, motivo d'orgoglio per il padre, che una celebre missiva inviata alla granduchessa di Toscana declamava la piena maturità di Artemisia, nel 1611 spinse Orazio ad assegnarla alla guida del pittore e amico Agostino Tassi (1580-1644), un virtuoso della prospettiva trompe-l'œil con il quale collaborava a palazzo Rospigliosi (Casino delle Muse). Agostino, detto "lo smargiasso" e "l'avventuriero", di carattere sanguigno e dei trascorsi burrascosi e furfanteschi, era tuttavia molto stimato da Orazio che lo accoglieva spesso in casa.

Dopo diversi approcci con Artemisia, tutti rifiutati, Agostino approfittò dell'assenza di Orazio e la violentò, un gesto brutale compiuto con la complicità di altri 

In seguito allo stupro, Tassi promise un "matrimonio riparatore", all'epoca infatti, la violenza sessuale recava danno ad una generica moralità, non alla persona. In un primo momento, Artemisia cedette alle lusinghe del matrimonio, mentre il padre, subito informato dalla figlia, taceva. 


A DESTRA: Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1612-'13, Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli. A SINISTRA: Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1620, Galleria degli Uffizi, Firenze

Nel 1612, Artemisia scopre che Tassi è già coniugato e Orazio, malgrado sta lavorando con Tassi, sporge un'infuocata querela e lo denuncia, con l'accusa di aver "forzatamente sverginata" la figlia contro la sua volontà. Durante il processo, Artemisia descrive l'avvenimento con parole lucide e tremende.


Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, dettaglio, 1612-'13, Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli

La tela di Capodimonte, Giuditta decapita Oloferne, è considerata la prima versione, dipinta all'indomani dello stupro, delle molte Giuditte più volte replicate. Decisamente più crudo e violento, rispetto alla rappresentazione delle due donne che hanno appena compiuto il gesto, già dipinte da Artemisia e Orazio  (Giuditta e la fantesca Abra), qui la giovane sceglie di cogliere l'attimo dell’uccisione del generale, come sicuramente aveva visto fare a Caravaggio (Giuditta e Oloferne, 1599), nel quadro di Palazzo Barberini (Caravaggio e la verità della storia). 

Artemisia coglie l’impeto caravaggesco, drammatico e passionale, nella Giuditta che con forza, coraggio e determinazione, decapita Oloferne mentre, in un incrocio di braccia nude, cerca di liberarsi afferrando il colletto dell'ancella

Le due eroine del popolo, sono protagoniste di una scena cruenta, abbondantemente tinta di schizzi di sangue che, dalla testa dell’uomo, impregnano il lenzuolo bianco.
Artemisia sottolinea la differenza sociale delle due donne attraverso gli abiti: quello di Giuditta, blu e più elegante ed ornato, quello dell’ancella, rosso e più semplice. 
Al processo per stupro, Agostino Tassi fu condannato a cinque anni di reclusione o, in alternativa, all'esilio perpetuo da Roma; tuttavia, l'artista che optò per la seconda ipotesi, protetto da potenti committenti romani, rimase in città. 
Per riparare alle malelingue, Artemisia convolava a nozze con il pittore fiorentino Pierantonio Stiattesi, trasferendosi quasi subito a Firenze.


Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, 1620, olio su tela, 146,5x108cm., Gallerie degli Uffizi, Firenze

Nel 1620, Artemisia replicavail tema di Giuditta e Oloferne evidenziando una maggiore teatralità, conferita dall'inquadratura più ampia e dall'attenzione a dettagli di vesti e ornamenti. Evidente lo spostamento di stile verso i valori della pittura fiorentina scoperta nel suo soggiorno, di sette anni, presso la corte di Cosimo II. Giuditta ha un’acconciatura più elaborata e un bracciale al braccio sinistro, un morbido drappo rosso copre Oloferne, qui raffigurato quasi per intero con le  gambe ben salde al letto, a differenza del dipinto di Capodimonte. La spada inoltre, diventa il fulcro della composizione, mirabilmente descritta dall’elsa alla punta.

La Giuditta e Oloferne degli Uffizi, voluta da Cosimo II de’ Medici, fu pagata ad Artemisia solo per l'intervento dell'amico Galileo Galilei

Nella città medicea, l'artista conobbe un lusinghiero successo. Grazie allo zio Aurelio Lomi, fratello di Orazio, entrò nel vivace climax artistico promosso dalla politica illuminata di Cosimo II. Artemisia portava in città il verbo caravaggesco, mentre, nella corte di Cosimo II, intesseva una fitta rete di relazioni e scambi con personalità di spicco, come Galileo Galilei e il nipote del celebre Michelangelo, un gentiluomo di primaria importanza per Artemisia procacciatore di potenziali clienti. 


Artemisia Gentileschi, Autoritratto come Santa Caterina d’Alessandria, 1615–17, olio su tela, National Gallery, Londra

Nell'Autoritratto come Santa Caterina, emerge l'energia travolgente dell'artista: con il capo sovrastato da un’aureola che ne definisce la santità, la donna, guarda lo spettatore con la mano sinistra poggiata sulla sommità di una ruota spezzata e dentata, simbolo della Santa torturata e martirizzata nel IV secolo d.C., per volere dell’imperatore Massenzio. 

Nel luglio del 1616, Artemisia Gentileschi fu insignita di un trionfale riconoscimento per meriti pittorici, ed entrò nella prestigiosa Accademia delle arti e del disegno di Firenze, come prima donna a godere del privilegio

Nel fecondo e prolifico soggiorno toscano, Artemisia affermava per la prima volta la sua personalità pittorica adottando il cognome  di "Lomi", una chiara volontà di emanciparsi dalla figura del padre. 
A fronte a tanta fama e successo, la sua vita privata fu molto avara di soddisfazioni: il matrimonio con Stiattesi si rivelava di pura convenienza e il marito, per mala gestione del patrimonio, arrivò ad accumulare debiti. Tuttavia, in soli quattro anni, la coppia mise al mondo due maschi e due femmine.
Nel 1620, Artemisia lasciò la Toscana, i rapporti con Cosimo II si erano deteriorati, le quattro gravidanze l'avevano depressa e inoltre, dette scandalo per una relazione clandestina con Francesco Maria Maringhi.


Artemisia Gentileschi, Ritratto di Caterina Savelli, 1620, olio su tela 

Tornata a Roma, da sempre abilissima ritrattista, Artemisia realizza il ritratto della principessa Caterina Savelli (1590-1639), figlia del nobile Paolo Savelli, una prestigiosa famiglia romana. La preziosissima tela, inquadra una giovane donna seduta, riccamente vestita con un abito in velluto nero ricamato d'oro, il colletto di pizzo, gli orecchini, gli anelli e le perle al collo. Il trattamento è molto meticoloso come era il suo stile nei molti ritratti di aristocratici.
La Gentileschi non era più una giovane pittrice inesperta e impaurita, come negli anni del Tassi, infatti, nel suo ritorno a Roma trovò molti appassionati d'arte e pittori, italiani e stranieri, che ammiravano con sincero entusiasmo il suo talento. Inoltre, non più condizionata dalla soffocante figura del padre, Artemisia poteva frequentare l'élite artistica, stringere relazioni amicali in un milieu romano utile ad ampliare gli orizzonti figurativi, soprattutto nell'entourage caravaggesco. Alcuni nomi: Simon Vouet (1590-1649), Massimo Stanzione (1585-1656), Jusepe de Ribera (1591-1652), Bartolomeo Manfredi (1582-1622), Spadarino (1585-1652), Antiveduto Grammatica (1571-1626), Bartolomeo Cavarozzi (1587-1625)) e Nicolas Tournier (1590-1638).
Nonostante la solida reputazione e la rete di buone relazioni, il soggiorno di Artemisia a Roma non fu ricco di commesse,  era riconosciuta solo come abile ritrattista, o come autrice di eroine bibliche. Ancora le erano precluse le prestigiose commissioni ad affresco e le grandi pale di altare 
Nell'estate del 1630, Artemisia si reca a Napoli, la capitale del viceré spagnolo, seconda metropoli europea dopo Parigi, città fiorente di cantieri e lavoro, ma soprattutto, luogo ancora intriso di caravaggeschi come Ribera e Stanzione e di lì a poco, anche di carracceschi come Domenichino e Giovanni Lanfranco (Caravaggio e i caravaggeschi a Napoli).
Nella metropoli partenopea, l'artista trova fissa dimora e Napoli, diventerà la sua seconda patria. Qui, riceve attestati di grande stima, conosce il viceré Duca d'Alcalá, ha scambi alla pari con i maggiori artisti, a cominciare da Stanzione con il quale istaura un'intensa collaborazione. 


Artemisia Gentileschi, San Gennaro nell'anfiteatro di Pozzuoli, tra il 1636-'37 ca., Cattedrale di Pozzuoli

Per la prima volta, Artemisia dipinge sia per il Viceré, sia pale d'altare per importanti chiese, come le tre destinate alla cattedrale di Pozzuoli, tra cui un San Gennaro. Artemisia dimostra di sapersi aggiornare sui gusti artistici del tempo e di essere in grado di gestire anche nuovi soggetti.
Nel 1638, la pittrice si reca a Londra presso la corte di Carlo I, un soggiorno scarsamente documentato. Forse voleva preparare una adeguata dote alla figlia Prudenzia, o forse ancora, raggiungere il padre Orazio che, nel frattempo, era diventato pittore di corte, Qui Artemisia incontra Carlo I, un collezionista fanatico che reclamava un'opera della famosa "pittora" italiana. 
Nel 1642, alle prime avvisaglie della guerra civile, Artemisia aveva già lasciato l'Inghilterra e nel 1649, era nuovamente a Napoli, come testimoniamo alcuni documenti. 
Oggi si suppone che l'artista sia morta durante la devastante peste che colpì Napoli nel 1656, spazzando via un'intera generazione di artisti. 

APPROFONDIMENTO
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FOTO DI COPERTINA
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come suonatrice di liuto, olio su tela, 1615-'17, Curtis Galleries, Minneapolis