Caravaggio e i caravaggeschi a Napoli

Da Battistello Caracciolo a Luca Giordano

La “cerchia” si potrà dire, meglio che la scuola; dato che il Caravaggio suggerì un atteggiamento, provocò un consenso in altri spiriti liberi, non definì una poetica di regola fissa, e insomma, come non aveva avuto maestri, non ebbe scolari
Roberto Longhi, 1951

Nell'estratto qui proposto (Progetto idea, 2003), lo storico dell'arte Nicola Spinosa (1943), ex soprintendente del Polo museale di Napoli, racconta i due soggiorni di Caravaggio nella città del viceregno (1606-1607 e 1609-1610) e la conseguente nascita di una "cerchia" caravaggesca. 
A Napoli i caravaggeschi avranno moltissimo successo e a differenza di Roma, dove a partire dagli anni Trenta del Seicento succederà il Barocco, nella città partenopea il verbo di Caravaggio avrà seguito fino alla metà del secolo. 
Coinvolto in una partita di pallacorda, in seguito a una rissa scaturita per fallo dalla squadra rivale, Caravaggio ferì mortalmente Ranuccio Tommasoni, figlio di un eroico ed alto ufficiale dello Stato Pontificio. Non era la prima lite violenta tra i due, pare che all’origine della rivalità, oltre a debiti di gioco, c’era anche Fillide Melandroni, modella e amante dell'artista. 

Caravaggio ricevette una condanna capitale per decapitazione che poteva essere eseguita da chiunque lo avesse riconosciuto per strada 

Nel 1606, aiutato da Filippo I Colonna, Caravaggio fuggi da Roma per rifugiarsi nei feudi laziali della famiglia, prima di riparare a Napoli, grazie a un ramo collaterale della potente casata romana, quella dei Carafa. Risale a questo periodo la Cena in Emmaus (1606) conservata a Brera.
Nel primo soggiorno partenopeo, Caravaggio sostò circa un anno (1606-'07), ed esegui una serie di grandi tele di soggetto sacro  dove risulta evidente il cambio di registro stilistico. 

Da ora, la pittura di Caravaggio diventa più scura e rarefatta, le composizioni più essenziali e inoltre, entrano nelle tele angusti vicoli, sfacciati scugnizzi ed aguzzini, una nuova realtà di strada destinata a cambiare il corso della pittura napoletana, molto più di quando succedeva a Roma 

In questi anni, come un'ossessione, si moltiplicano le teste tagliate (Salomè con la testa del Battista, 1607-'10, Londra; Davide con la testa di Golia, 1607, Vienna) e nascono opere emblematiche come, quasi di sicuro, l'ultimo ritrovamento dell'Ecce homo di Madrid (Vittorio Sgarbi: Ecce homo, riscoperta di un Caravaggio), assieme a le Sette opere di misericordia (1606-'07; Pio Monte della Misericordia, Napoli), la Crocifissione di Sant'Andrea (1607; Cleveland Museum of Art, Cleveland), il Cristo alla colonna (1606-'07; Musée des Beaux-Arts, Rouen), il Martirio di Sant'Orsola (1610; Caravaggio: Il Martirio di Sant'Orsola), e la Flagellazione di Cristo (1607-'08), qui raccontata da Spinosa. 


Caravaggio, Flagellazione di Cristo, 1607-'08, olio su tela, 286x213cm., Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

Della Flagellazione di Cristo, pala d’altare destinata alla chiesa napoletana di San Domenico, esiste un documento di pagamento del 1607, un acconto di ben duecento ducati da parte di Tommaso De Franchis, committente dell'opera.
Eseguita nel primo soggiorno napoletano (1606-'07), dopo le Sette opere di misericordia, la Flagellazione è un’immagine violenta e drammatica, piena di dolore e disperazione, dai particolari al suo complesso. 

Fulcro della tela, Cristo nel bel mezzo della sua verticalità, accentuata da una luce diretta; lo regge e lo accompagna una colonna marmorea alle spalle, appena accennata da un raggio radente 

Molto attraente e di estrema fedeltà naturalistica, il particolare bianco del perizoma che cade floscio, riecheggiando la verticale della colonna, quasi a sottolineare la debolezza del martire legato per non cadere al suolo. Il contrasto tra il corpo di Cristo investito pienamente dalla luce e le due figure brunite dei carnefici, parzialmente inghiottite dalle tenebre, conferiscono all'opera un pathos drammatico inusuale. La stessa sofferenza e rassegnazione, visibile nel volto di Cristo, contrasta con le fattezze rozze e le smorfie crudeli dei due aguzzini. 
Alcune indagini scientifiche, hanno dimostrato che Caravaggio inizia ora ad adottare una preparazione di fondo della tela molto scura, quasi nera, diversa rispetto a quella del periodo romano. 
Si suppone, inoltre, che il quadro sia stato ritoccato nel secondo soggiorno partenopeo dell'artista, attorno al 1609, di ritorno dalla Sicilia. Caravaggio apportava modifiche alla posa dell'aguzzino di sinistra ed eliminava totalmente un terzo carnefice a vantaggio di una composizione più essenziale. 


Caravaggio, Le Sette opere di Misericordia, 1606-'07, Pio Monte della Misericordia, Napoli

L'esposizione in città della grande pala di Caravaggio, Le Sette opere di misericordia (1606-'07), cambierà il corso di tutta la pittura napoletana del Seicento, ad iniziare da Carlo Sellitto (1580-1614) e Giovani Battista Caracciolo (1578–1635), detto Battistello, che videro l'opera del Merisi negli anni in cui era attivo a Sant’Anna dei Lombardi.

Formati in ambito tardo manierista, Sellitto e Caracciolo colgono fin da subito la lezione della luce caravaggesca, accendendo nelle loro tele il pathos e la drammaticità evocati dai profondi contrasti tipici del "maestro"

Tuttavia, a detta di Spinosa, qui intervistato, a volte le opere di questi risultano un po' aneddotiche, rispetto all'essenzialità di Caravaggio. 


Battistello Caracciolo, Liberazione di San Pietro, 1615, olio su tela, 310x207cm., Pio Monte di Misericordia, Napoli

La Liberazione di San Pietro, in un primo momento, era stata affidata a Carlo Sellitto e dopo prematura scomparsa nel 1614, la commissione fu girata a Caracciolo che, come testimonia un documento degli archivi del Pio Monte, venne pagato cento ducati.
Committente della tela, il Pio Monte di Misericordia, la stessa istituzione per la quale Caravaggio dipingeva pochi anni prima le Sette opere. Caracciolo è chiamato ad illustrare una delle attività del Pio Monte, riferita alle sette opere: "Visitare i carcerati".

L’angelo con le sembianze di un ragazzo è sceso in terra per liberare San Pietro. L’apostolo, incredulo e spaventato, lo segue cautamente. A terra, i soldati addormentati. Tutt'intorno, il buio è rotto dal chiarore di una porta e una finestra, uniche fonti di luce

Diversi i richiami stilistici che riconducono alla più complessa pala di Caravaggio. Caracciolo descrive con estremo realismo le fisionomie popolari, i particolari anatomici del corpo in primo piano, i piedi sporchi del milite addormentato e le fasce muscolari tese della gamba sollevata. L’ambientazione ricorda i vicoli bui napoletani del tempo. Decisi i contrasti di luminosità: dal fondo bruno scuro, spicca il rosso del panno stretto intorno ai fianchi del soldato in primo piano, la testa calva di San Pietro e la tunica bianca dell’angelo. 
Nello stile di Caracciolo, l'eleganza di alcuni passaggi e le preziosità materiche delle vesti dell'angelo e dell'abito rosso vinato di san Pietro, rammentano certi effetti cromatici di Orazio Gentileschi (Orazio Gentileschi: L'annunciazione di un caravaggesco), la cui bottega fu frequentata dal Battistello durante alcuni viaggi studio a Roma.


Carlo Sellitto, Santa Cecilia all'organo, 1613, olio su tela, 260x185cm., Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

Carlo Sellitto (1581-1614), figlio d'arte di origini Lucane, naturalizzato napoletano, aveva fatto l'apprendistato presso lo studio del fiammingo Lois Croise. Il precoce Sellitto, diventato noto fra l'aristocrazia napoletana del tempo per i suoi ritratti dettagliati e realistici, abbandonò la proficua carriera per seguire le orme di Caravaggio ed accedere alla verità tangibile e umana dei gesti e dei sentimenti, in tele animate da giochi di luci e ombre.
Morto a soli 33 anni, con un catalogo di pochissime ma pregiate opere, fra queste una splendida Santa Cecilia all'organo, dipinta per la cappella omonima della chiesa di Santa Maria della Solitaria. 

Cecilia, patrona della musica, rappresenta un importante riferimento per Sellitto, i cui interessi musicali sono testimoniati dall’inventario dei suoi beni

La Santa Cecilia, presenta una composizione apparentemente semplice ed immediata, ma ricca di espressività. In un ambiente spoglio e buio, emergono dalla luce gli angeli raccolti attorno alla Santa che suona un organo di legno.
In primo piano a sinistra, un angelo senza ali guarda l’osservatore stabilendo un contatto fuori dalla tela; un secondo dirige lo sguardo verso l’alto, come la Santa, mentre i due vicini, dietro l'organo, son dediti ai loro strumenti. A destra, un cherubino alato, nudo e inondato di luce, maneggia con destrezza il tubicino pneumatico alle spalle dell’organo. 

La scena coniuga il sacro con il quotidiano grazie a quello sguardo di verità e naturalezza che Caravaggio aveva lasciato in eredità alla pittura napoletana

Lo spagnolo Jusepe de Ribera (1591–1652), noto anche come José de Ribera o Spagnoletto, attivo principalmente a Napoli dal 1616, sarà un influente caposcuola dei caravaggeschi che riuscirà ad ottenere la nomina di pittore di corte dei Viceré, titolo molto raro per la "scuola dei naturalisti" partenopei.   
Ribera, iniziò il suo l’apprendistato a Valencia e affascinato da Caravaggio, decise di trasferirsi in Italia viaggiando tra Cremona, Milano e Parma, per giungere a Roma e poi trasferirsi definitivamente a Napoli, dove sposava la figlia di un pittore dalla quale avrà sei figli.


Jusepe de Ribera, San Girolamo e l'angelo del Giudizio, 1626,
olio su tela, 262×164cm., Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli


San Girolamo, tra i massimi capolavori del pittore spagnolo, è un dipinto firmato e datato che presenta i tipici richiami del caravaggismo napoletano, nella prima maturità di Ribera. I passaggi chiaroscurali infatti, sono meno evidenti rispetto alle prime opere dove il tenebrismo caravaggesco appare più definito e accentuato. 

La scena mostra San Girolamo, in atto di tradurre la Bibbia, sorpreso dall'angelo del Giudizio che, tra le nuvole, suona il corno. La luce, proveniente da un'apertura paesaggistica tra le rocce, in alto a sinistra, si riversa nella composizione

L'angelo di Ribera, è molto simile a quello dipinto da  Caravaggio nella seconda versione del San Matteo (1602) per la Cappella Contarelli  (Caravaggio e la Cappella Contarelli).  La scena è arricchita di tutti gli elementi iconografici della tradizione, il leone, appena visibile nella penombra alle spalle del santo, il teschio e la pergamena arrotolata. 
La tela fu eseguita per la cappella affianco all'altare maggiore della chiesa della santissima Trinità delle Monache, dov'era presente un altro dipinto di Ribera.


Giuseppe Ruoppolo, Natura morta con pigne, uva, mele, fiori secchi, noci, nocciole e lumaca,  fine XVII secolo, olio su tela, 75,5x127,8cm., Collezione Mastai Ferretti, Napoli

Nel Seicento napoletano, la pittura di genere (Il Mangiafagioli di Annibale Carracci) e in particolare la natura morta, ebbero grandissimo sviluppo, sia grazie ai caravaggeschi, sia per la presenza in città di pittori fiamminghi particolarmente dediti ad indagini naturalistiche. Tale fortuna, inoltre, è stata supportata anche dalle idee diffuse nell'ambiente culturale cittadino, profondamente permeato della "filosofia naturale" promossa da studiosi all'avanguardia, come Bernardino Telesio, Giordano Bruno e Tommaso Campanella.
A Napoli, la natura morta rinasce in chiave barocca attraverso un graduale passaggio di gusto: dall’ammirazione per la fedeltà oggettiva della rappresentazione ancora tardo manierista, allo stupore e meraviglia per l’invenzione delle più svariate e fantasiose composizioni, non solo floreali, ma anche animali e di oggetti. 

Oltre a rappresentare allegorie delle stagioni, dei sensi, delle arti e tanto altro ancora, la natura morta seicentesca rimanda, principalmente, al tema della Vanitas

Le imperfezioni della natura, come frutti bacati o foglie secche, simboleggiano lo sfiorire della bellezza e la fugacità del tempo, allusioni alla morte, uno dei temi principali della cultura barocca.
A differenza di Roma, a Napoli nascono vere e proprie consorterie di pittori dediti al genere, dinastie di specialisti legati da vincoli di sangue, come la famiglia dei cinque Recco (Giacomo, Giovan Battista, Giuseppe, il più celebre ed i suoi figli Elena e Nicola Maria) e dei Ruoppolo (Giovan Battista ed il nipote Giuseppe), che monopolizzeranno per decenni un ricco e fiorente mercato. 
Compratori di nature morte, la nuova borghesia laica, colta ed estimatrice di pittura, che considera queste opere un simbolo da esibire e di cui compiacersi, né più né meno, come accadeva nel nord Europa.


Paolo Porpora, Natura morta, dett., olio su tela, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

Dalle figure di Giacomo Recco (1603-1653) e Luca Forte (1605–1670), secondo studi recenti considerati gli iniziatori della natura morta napoletana, il genere raggiunse gloria e considerazione solo con la generazione successiva, marcata dalla folgorante apparizione sulla scena di Paolo Porpora (1617-1673).
Porpora divenne esperto di nature morte inconsuete, arricchite di specialità naturalistiche e in particolare, oltre a fiori, insetti e frutta, tutto ciò che richiama il mondo del mare diventerà la sua firma: pesci, ostriche, lumache, conchiglie, lucertole, bisce e tanto altro.  

Nella storia dell'arte, il Seicento napoletano è considerato il "secolo d'oro della pittura", sia per l'alto livello qualitativo prodotto, sia per la grande varietà di proposte provenienti da  artisti locali e stranieri residenti in  città 

La Napoli seicentesca vede un avvicendarsi di stili e una varietà di tematiche: dal caravaggismo, al classicismo fino al barocco, dalla pittura di paesaggio o di battaglia, fino alla natura morta, e il tutto, è raccolto in quella che si può considerare la vetrina del "secolo d'oro" napoletano, lo scrigno artistico della città, la Certosa di San Martino (Napoli. La Certosa di San Martino). 
Dalla metà degli anni Trenta, il filone caravaggesco viene contaminato della luminosità del barocco emiliano e romano, grazie all'arrivo in città di pittori dediti all'affresco, quali Domenichino (1581-1641) e Giovanni Lanfranco (1582-1647). Anche Ribera, a seguito dell'incontro a Napoli con Diego Velázquez (1599-1660), lascia il suo stile tenebroso per una tavolozza neoveneta più chiara, mentre Massimo Stanzione (1585-1656), coevo di Caravaggio, rimane sostanzialmente vicino al naturalismo dei Carracci.


Bernardo Cavallino, Estasi di Santa Cecilia, 1645, olio su tela 207,5x157cm., Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

Il napoletano Bernardo Cavallino (1616-1656), prima della peste che travolse la città nel 1656 e che decimò una schiera di artisti, lavorò principalmente per l'aristocrazia dei Borboni e per collezionisti privati, pertanto, poche le tracce sulla sua attività. Oggi, rimangono circa ottanta dipinti a lui attribuiti, dei quali, poco più di dieci firmati, come la Santa Cecilia.
Il precoce pittore inizia a lavorare nella metà degli anni Trenta del Seicento, guardando al realismo di Caravaggio e successivamente, subisce la fascinazione per Simon Vouet (1590-1649), visto a Roma e Artemisia Gentileschi incontrata nel suo lungo soggiorno a Napoli (Ritratto di Artemisia Gentileschi). Vicino a Massimo Stanzione, detto il "Guido Reni napoletano", Cavallino mette a punto un suo originale ed elegante classicismo, impreziosito nella resa pittorica, dal cromatismo veneziano di Tiziano e Veronese. 


Bernardo Cavallino, Estasi di Santa Cecilia, dett., 1645, olio su tela, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

Firmata e unica opera datata, 1645, l’Estasi di Santa Cecilia  presenta un'elegante composizione classicista e barocca. 

Le luci argentee che esaltano le ricche cromie, le ombre colorate e la resa sentimentale e di ricercata grazia espressiva, rispondono al gusto di una colta e raffinata committenza privata 

La disposizione scenografica e i gesti espressivi dei personaggi, sembrano il risultato del trasferimento sulla tela di una scena teatrale contemporanea che pertanto, anticipa la coltivata sensibilità d’inizio Settecento. 

La peste del 1656, determinava nella pittura napoletana un "punto zero", oltre il quale iniziavano a apparire le nuove soluzioni stilistiche barocche sperimentate a Roma 

Pittori formati nella prima metà del secolo, come Mattia Preti (1613-1699) e Luca Giordano (1634-1705), sebbene iniziavano a dipingere guardando a Caravaggio, nella seconda parte del Seicento avviarono la pittura napoletana al barocco, facendosi promotori del moderno mutamento di rotta che si prolungherà anche per tutto il Settecento, trovando in Giordano, Giovanni Battista Beinaschi (1636–1688) e Francesco Solimena, (1657–1747), i massimi esponenti.  
Napoli vedrà la ripresa dei grandi cicli di affreschi nei palazzi nobiliari cittadini ed extraurbani, nonché nelle cupole e nelle pareti delle chiese, dove il classicismo (Domenichino: il sentimento "naturale" del classico) e il barocco degli anni Trenta, già anticipati nella capitale da Lanfranco e Domenichino (Lanfranco e Domenichino a Sant'Andrea della Valle), si arricchirà degli esiti romani di Pietro da Cortona (1597-1669), grazie all'abile virtuosismo di Luca Giordano.


Mattia Preti, Bozzetto di affresco votivo per la peste del 1656, 1656, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli

Mattia Preti, outsider di origine calabrese, sarà a Napoli dal 1653 al 1661, introducendo con fare talentuoso nella sua cospicua produzione i modelli pittorici del barocco. Preti costituì il momento di transizione nella pittura locale; dal naturalismo di matrice caravaggesca (Gli inizi di Mattia Preti a Roma), in pochi anni introduce i modelli solari di Correggio e Guercino, gli effetti atmosferici della pittura veneta cinquecentesca, da Veronese a Tintoretto, il comporre ampio e solenne di Pietro da Cortona.


Mattia Preti, Affresco per la Porta di San Gennaro, 1657-'59, Napoli

La principale commessa del pittore, appena giunto a Napoli, furono gli affreschi per le porte della città, eseguiti tra il 1657 e il 1659, con scene votive per la fine della peste (1656). Oggi rimane solo quello di Porta San Gennaro e diversi bozzetti preparatori al museo di Capodimonte. 
Con questi affreschi, Preti faceva saltare quel sottile equilibrio, oramai cinquantenario, per cui nella scena napoletana il naturalismo caravaggesco veniva adottato solo dai  pittori locali in piccoli formati, ossia su tela. Gli affreschi di ville, chiese e palazzi, rimanevano prerogativa di pittori stranieri, come il caso di Domenichino e Lanfranco. Spetta a Mattia Preti rompere questo schema e fondere gli stili.  


Luca Giordano, Socrate vessato da Santippe, 1662-1665 ca., olio su tela, 127,5x100,5cm., Collezione privata

L'incontro a Napoli, tra Preti e il giovane napoletano Luca Giordano, sarà motivo di prolifici scambi biunivoci. 
Giordano, la cui famiglia era in amicizia con Ribera, fu tra i più importanti e grandi pittori napoletani del Seicento e tra i più prolifici di sempre. Longevo dal punto di vista pittorico, il catalogo dell'artista conta circa tremila dipinti dove si registra una costante evoluzione di stili che, di volta in volta, sopraggiungono dopo viaggi, a più riprese, tra Roma e Venezia. 
Giordano supera la tradizione del caravaggismo e inaugura un barocco esplosivo, dai colori vivaci e dalle pennellate sfumate e veloci, grazie all'incontro con la tavolozza veneta, resa dinamica sull'esempio dei maestri bolognesi e romani.  

Giordano, noto all'epoca col soprannome di "Luca Fapresto", per la straordinaria velocità con la quale portava a termine i suoi tanti lavori, rendeva Napoli una capitale del Barocco italiano

Formato nella bottega di Ribera, Giordano studiava a Roma Michelangelo, Raffaello e i Carracci, mentre, nel 1665, ospite a Venezia del marchese Agostino Fonseca, si confrontava con le opere di Veronese, Tintoretto e Tiziano.
Le prime importanti committenze napoletane risalgono agli inizi degli anni Sessanta del Seicento, con la realizzazione delle tele per gli altari laterali della Chiesa di Santa Maria del Pianto a Napoli, dove il San Gennaro intercede per la cessazione della peste e i Santi protettori di Napoli adorano il Crocifisso (1662). 


Luca Giordano, Allegoria della freccia d'oro, 1694-'97, affresco, Casón nel Palazzo Reale del Buen Retiro, Madrid

Raggiunta una fama senza eguali, dal 1692 e il 1702, Carlo II d’Asburgo, re di Spagna, lo chiamava a lavorare a Toledo presso il monastero di San Lorenzo all'Escorial e a Madrid, al Casón del Palazzo Reale del Buen Retiro. L'affresco di Madrid, Allegoria della freccia d'oro, considerato uno dei capolavori della collezione del Museo del Prado, è stato una delle ragioni per cui la costruzione è sopravvissuta quando, la maggior parte degli altri edifici del complesso del palazzo del Buon Ritiro, vennero demoliti nell'Ottocento. 
Tra le sue opere principali, oltre alla decorazione della cupola della Cappella Corsini in Santa Maria del Carmine a Firenze (1682), anche gli affreschi con Il Trionfo di Giuditta nella Cappella del Tesoro Nuovo della Certosa di San Martino a Napoli (1704). 

FOTO DI COPERTINA 
Battistello Caracciolo, San Giovannino, 1631 ca., olio su tela, 81x66cm., Fondazione De Vito, Vaglia (Firenze)