Giacomo Ceruti, il Pitocchetto

"Pittore della realtà" in Lombardia

Giacomo Ceruti (1698–1767) era detto il “Pitocchetto”, ossia pittore di “pitocchi”, per la sua opera dedicata in larga parte alla rappresentazione di poveri ed emarginati. 
Nato a Milano, nel 1721, l’artista si trasferiva a Brescia dove soggiornava con la moglie fino al 1733 circa. Qui, iniziava a realizzare le sue tele di genere pauperistico. Nel 1736, Ceruti è documentato a Venezia, poi a Padova e in seguito, ancora per commissioni pubbliche, a Milano e Piacenza.
Fin da giovane, a Brescia, Ceruti è autore di “pitocchi”, ma anche di severissimi ritratti in stile Fra’ Galgario (I ritratti di Fra’ Galgario, ragione e sentimento); gli ultimi studi sull’artista, tuttavia, hanno messo in luce un’attività molto varia, consacrata sia alla pittura di genere, sia a tematiche tradizionali come pale d’altare, soggetti mitologici e ritratti di nobili aristocratici in stile Rococò. 

Questa sperimentazione virtuosistica del pennello è tipica della figura dell’artista settecentesco

Per i pittori più dotati, dedicarsi a generi diversi era un modo per affrontare la complessa richiesta di un mercato sempre più variegato, non solo ecclesiastico, ma anche composto da collezionisti, amatori di generi e una nuova borghesia di professionisti.
Artista raffinato e colto, Ceruti fu capace di alternare la sua produzione usando le due facce di una stessa medaglia: da una parte le pubbliche commissioni, dall’altra i privati cittadini. 
Solo gli studi più recenti hanno confermato questo suo modus operandi caratteristico di grandi pittori dell’epoca, come anche il grande Tiepolo (Scherzi e Capricci: le nere incisioni di Tiepolo).

La fortuna critica di Ceruti fu molto tarda. Apprezzato e richiesto in vita, dopo la morte la sua produzione venne cancellata dall’impeto Neoclassico per essere riscoperta solo nel Novecento

Fu il critico Roberto Longhi, nel 1922, a segnalare “La Lavandaia”, opera spedita dalla Pinacoteca Tosio Martinengo (Brescia) a Firenze, in occasione della grande mostra, “Pittura italiana del ‘600 e del ‘700”, allestita a Palazzo Pitti. “La Lavandaia” era il primo quadro che il museo bresciano attribuiva all’artista della cui opera, dopo la morte, si era persa memoria.

La donna che lava i panni è diventata l’immagine icona di Ceruti

L’ambientazione domestica e familiare lascia immaginare la corte di un casolare della bassa bresciana, dove nel silenzio quotidiano e ordinario non succede nulla. La forza del quadro sta tutta nello sguardo stanco e dignitoso della lavandaia che cerca di dire qualcosa a chi osserva. 
Nel 1930, il caso Ceruti tornava all’attenzione della critica grazie al ritrovamento di Giuseppe Delogu del “Ciclo di Padernello”, custodito nel Castello omonimo. Si tratta di quindici dipinti a olio su tela, di grandi dimensioni, che ritraggono vecchi, mendicanti, ragazzetti con ceste in spalle, filatrici, orfane e nani sullo sfondo della campagna, o in angoli chiassosi di città. 
Con “La Lavandaia”, il ciclo rappresenta il primo corpus di opere attribuito all’artista che Longhi riconduceva alla secolare tradizione lombarda, detta dal critico la "pittura della realtà". Da Vincenzo Foppa, alla scuola bresciana intorno a Moroni, Moretto e Savoldo, fino a Caravaggio, Longhi individuava una corrente di pittori che in quella terra, da secoli, avevano trattato l'immagine degli “ultimi”. Figure di matrice popolare, abbondavano nelle scene sacre del Rinascimento bresciano, poveri contadini e mendicanti venivano tratteggiati con vivo spirito di osservazione senza indulgere in stereotipi. 
L’affascinante e commovente quadreria di Padernello fatta di umanità vera, non ancora attribuita a Ceruti, era stata acquistata nel 1882 dal Conte Bernardo Salvadego all’asta della collezione bresciana della famiglia Fenaroli. Il Conte, con profonda sensibilità e fiuto da intenditore, non si lasciò influenzare dal prezzo esiguo delle opere e le comprò senza esitazione per decorare le pareti della casa di campagna. 
Dopo la morte del Conte Salvadego, il ciclo abbandonò il Castello di Padernello e venne disperso; oggi è sparso tra i Musei Civici di Brescia e alcuni collezionisti privati.

Le tele di Padernello erano destinate ad ornare le dimore dell’aristocrazia bresciana settecentesca; esse costituiscono un fenomeno straordinario anche per il loro cospicuo numero, una cifra ancora non chiara 

Oltre alla loro unicità di soggetto, anomala è anche la dimensione, non piccoli quadri da salotto come potevano essere quelli dei Bamboccianti nel Seicento, ma rappresentazioni su grande scala, quasi a grandezza naturale. 
Due sono le ipotesi sull’originaria provenienza del Ciclo di Padernello: non ancora pienamente accertate, entrambe riconducono a membri di famiglie bresciane. La prima, quella di Giovanni Avogadro, amante della vita elegante e dedito a collezionare opere stravaganti e bizzarre, come le cineserie settecentesche e alcuni "pitocchi" di Ceruti. L’altro soggetto in causa è Pietro Lechi, nobile insignito dal Senato della Repubblica veneta, "pubblicamente benemerito", nel cui testamento risultano registrati e distribuiti in diverse dimore, tra città e campagna, venti “quadri di pitocchi”. Nei primi anni dell’Ottocento, i due rami delle famiglie si incrociano e un nutrito numero di “pitocchi”, appaiono negli inventari dei beni di Giovanni Antonio Fenaroli Avogadro.
Circa l’interesse da parte dei ricchi mecenati di Ceruti per il genere pauperistico, di sicuro esisteva una qualche particolare consonanza tra l’artista e i suoi committenti, come pure tra il pittore e i suoi soggetti. 
A tal proposito, Federico Zeri, che non escludeva nessuna possibilità, scriveva:

La rappresentazione dei poveri era richiesta come spunto di meditazione caritatevole o come una sorta di memento, quasi a oggettivare un senso di colpa? Oppure il fine ultimo era il sollazzo, per la vetusta identificazione di ignobile e di ridicolo?”

E ancora, come non siamo certi dei fini della committenza, secondo Zeri lo siamo tanto meno sulle intenzioni del pittore sul quale la ricerca d’archivio è ancora in corso: 

C’era in lui una sacralità del povero, drammaticamente sofferta? O la sua era soltanto l’impassibile, indifferente registrazione di una realtà, orrenda ma oggettiva, da descrivere con la medesima, esatta precisione di un ritratto nobiliare?”
Federico Zeri

Le ricerche novecentesche sull’artista hanno messo in evidenza la figura del suo primo mecenate ufficiale, il patrizio veneziano Andrea Memmo, podestà di Brescia (1726-1728), che gli commissionò un ciclo di tele, oggi perduto. Le frequentazioni veneziane, inoltre, portano Ceruti in contatto con le correnti più avanzate del collezionismo veneto, sensibili alla ricerca del “vero” e a temi umanistici. 
A Brescia, inoltre, Ceruti vive e interpreta certe sensibilità diffuse: tramite il Memmo, si ipotizza sia entrato nella sfera d’influenza del vescovo di Brescia, il bibliofilo di origine veneziana Angelo Maria Querini. Uomo di straordinaria cultura, Querini era prefetto della Biblioteca Vaticana, inserito in una fitta rete di relazioni con eruditi, filosofi, pensatori e teologi, sia cattolici, sia protestanti; tra i suoi corrispondenti, comparivano importanti intellettuali d’Italia e d’Europa anticipatori delle idee illuministe. Dalla fine deli anni Venti, a metà Settecento circa, sotto la sua guida, a Brescia maturava una cultura nobiliare etica e morale: “dall’amore per le armi a quello per le lettere”. Tra i collaboratori di Querini, infine, appaiono i nomi di pensatori filogiansenisti, mossi da istanze razionaliste, favorevoli a una migliore giustizia sociale e a una moralità austera, aliena da formalismi del culto cattolico.  
Un altro dato sulla società bresciana del Settecento, potrebbe aver favorito la fortuna della pittura pauperista di Ceruti. 

A Brescia la miseria sociale assumeva un peso squilibrante: i poveri superavano il settanta per cento della popolazione

Dopo la peste del 1630, infatti, la città viveva una seria crisi economica e produttiva del grande settore manifatturiero che la legava in proficui scambi con la Repubblica veneziana. 
Il sistema caritativo e assistenziale, istituito nello stesso periodo anche dai Borbone a Napoli (La Napoli dei Borbone), a Brescia vantava origini quattrocentesche antichissime. Il modello collaudato e avanzato prevedeva strutture diverse anche in base ai vari bisogni; chi era dotato all’educazione e al lavoro come base di un riscatto morale e materiale, entrava in istituti storici, fondati dalle principali famiglie patrizie della città, i cui esponenti, a fianco al clero, ricoprivano cariche di direttori e amministratori.
Nel periodo bresciano di Ceruti, l’aristocrazia dominante salvaguardava pudore e virtù togliendo i poveri dalla strada; alloggiati in istituti pii, dove vigeva la massima moderazione, le donne dovevano indossare abiti casti, acconciature semplici e prive di ornamenti. 

Nel silenzio e la preghiera, le ragazze apprendevano il cucito, il rammendo e il ricamo per finire, verosimilmente, a servire famiglie aristocratiche

Quando Ceruti dipinge “Donne che lavorano al tombolo”, scena del Ciclo di Padernello, mostra una scuola di cucito dove regna castigatezza e compostezza e dove una giovane bambina in piedi, china sul libro, sta imparando a leggere. 
Nel Ciclo di Padernello, gli atteggiamenti dei personaggi, le espressioni di figure mostrate in vividi “ritratti” psicologici, la descrizione di certi dettagli, confermano solo in parte un’empatia del pittore con i suoi modelli; in queste grandi tele, infatti, l’artista allena la sua speciale dote di “guardare” e riprodurre in testi squisitamente artistici brani di vissuto de suo tempo. 
Cerruti lo fa da abile conoscitore e debitore di una lunga tradizione iconografica, la “pittura della realtà” lombarda; in seguito, lasciata Brescia, l'artista è capace di interpretare anche i valori pittorici veneziani, come il gusto del colore e l’amore per gli effetti sensuali e tattili della materia. 
Tra le intense effigi di personaggi delle famiglie più in vista della nobiltà bresciana, come i committenti Lechi e Avogadro, spicca il “Ritratto di Giovan Maria Fenaroli”, firmato e datato sul retro e sul fronte con scrittura non autografa, ma ritenuta fedele e avvallata dai dati stilistici stessi. Con la sua data certa, 1724, esso costituisce un punto di riferimento cruciale nella definizione del precoce percorso del pittore da poco giunto a Brescia. 
Giovanni Maria Fenaroli, conte bresciano qui in posa due anni prima della morte, viene ritratto con estremo naturalismo, sobrietà, schiettezza e verità, caratteristiche evidenti nel volto, nello sguardo intenso, nella descrizione dei lunghi capelli grigi e della mano. 
Per questi volti “veri” di notabili, immortalati sulla tela come in uno scatto fotografico, Ceruti mostra un sicuro aggiornamento sui modi della ritrattistica milanese del primo Settecento di Fra’ Galgario con il quale, sappiamo, c'è stato uno scambio reciproco.

Tra ecclesiastici e personalità di vertice delle amministrazioni locali, nei ritratti bresciani domina l’estrema essenzialità della materia pittorica e il carattere disadorno con cui presenta i suoi committenti

Nobili o meno, gli effigiati sono tutti collocati contro fondali scuri privi di connotazioni ambientali e in pose controllate; molto diversi dai ritratti prodotti negli anni Quaranta, dove la cura delle vesti e la messa in scena di fondali architettonici, avvicina il pittore alle moderne istanze europee.  
Nel 1733, Ceruti fugge da Brescia, braccato dai creditori per via di sfortunati investimenti e si rifugia nel territorio bergamasco, fino a quando viene chiamato a Venezia al servizio del feldmaresciallo Johann Matthias von der Schulenburg.
Nel 1736, Ceruti è in laguna, ospite per qualche mese nella raffinata cornice di palazzo Loredan del maresciallo tedesco, un potente uomo d’armi, comandante supremo delle truppe di terra veneta. Accanto a ritratti e scene di “pitocchi” per le quali l’artista si era fatto conoscere in terra ferma, Schulenburg gli commissiona paesaggi e nature morte. La frequentazione del colto milieu del militare tedesco, per Ceruti diventa una preziosa occasione per aggiornare e perfezionare il suo stile, non solo sulla pittura veneziana del momento dei Piazzetta, Pittoni e Sebastiano Ricci, ma anche su una produzione di matrice più internazionale documentata nella quadreria dello Schulenburg.
A Padova, nel 1737, Ceruti realizza una pala d’altare per la Basilica del Santo, guardando alla grande opera del coetaneo Giambattista Tiepolo. 
Nella città del Santo, Ceruti concepisce anche una severa a austera effigie di sé stesso immortalato nelle vesti di pellegrino; a questa tavolozza, l’artista alterna un festoso colorismo tipicamente veneto e una magniloquente regia compositiva che diverrà lo stile raffinatissimo della sua produzione sacra negli anni della maturità.

Purtroppo, le grandi opere di destinazione ecclesiastica di Ceruti sono in gran parte andate perdute tra le soppressioni napoleoniche e i bombardamenti del 1945

“Ritratto di giovinetta col ventaglio” viene collocato dalla critica dopo il periodo veneziano e padovano. Appartenuto al celebre storico dell’arte e collezionista Giovanni Morelli, nel 1927 Longhi assegnava la paternità a Ceruti per l’esemplare testimonianza e valore dell’opera che, nel 1953, appariva sulla copertina del catalogo della sua storica mostra milanese, “I pittori della realtà in Lombardia”.
Facendo appello a una modernità essenziale per la gamma cromatica ridotta, dal blu pallido del vestito, al bianco della camicia, fino al lilla del ventaglio che richiama il tocco vivace del rosso dei capelli, Longhi riportava al grande Manet l’eredità dell’artista settecentesco. Ma guardando al prima di Ceruti, l’opera porta a supporre un interesse dell’artista per qualche esemplare di Velasquez, conosciuto presso i collezionisti del tempo (Velázquez "pittore dei pittori"). 

FOTO DI COPERTINA
Giacomo Ceruti, dettaglio, La lavandaia, 1720-‘25 ca., olio su tela, 145x131cm. (Ciclo di Padernello), Pinacoteca Tosio Martinengo, Brescia