Théodore Géricault, la dignità degli ultimi

L'anima profonda del Romanticismo francese

Géricault, oggi ammirato al Louvre per i suoi capolavori, concluse la sua brevissima carriera a soli trentatré anni, esponendo solo tre volte al Salon parigino

Noto anche come “il pittore dei cavalli”, per ironia della sorte furono proprio questi animali la causa della morte prematura: dapprima una rovinosa caduta, poi un violento scontro durante una corsa al “Campo di Marte” che aggravò il già precario stato di salute del pittore.
Théodore Géricault (1791–1824) incarna molte caratteristiche dell’artista romantico ottocentesco: aristocratico, libertino e bohémien, schivo, scostante e gentile, trascorre la sua breve esistenza tra drammi familiari, depressioni ed euforie, senza raggiungere mai l’agognato successo.
La sua fama fu postuma, ma tante dicerie furono scansate grazie al suo primo biografo, lo storico dell’arte Charles Clément che a metà Ottocento pubblicava la prima biografia sull’artista (Gazette des Beaux-Arts, 1867) frutto di studi e ricerche approfondite sulle opere, nonché testimonianze dirette di conoscenti.
All’anagrafe Jean-Louis André Théodore Géricault il pittore, originario di Rouen, cresce in una famiglia solida e abbiente; nel 1806, a quindici anni, si trasferiva a Parigi perché il padre, originariamente avvocato, sceglieva un’attività più remunerativa nel settore della manifattura del tabacco, cosa che garantiva al giovane una buona e regolare istruzione presso il prestigioso Lycée Impérial

Poco incline allo studio e alla rigida disciplina, dopo la precoce morte della madre nel 1808, Géricault lascia il liceo per seguire la sua passione, il disegno

Compie le prime esperienze nell’ambiente Neoclassico parigino presso ateliers di maestri formati con Jacques-Louis David ed Jean-Auguste Ingres, allora astri indiscussi della scena artistica (Jacques Louis David e Jean-Auguste-Dominique Ingres). 
Tuttavia, il giovane irrequieto che detesta le lunghe sedute in studio su modelli antichi, manifesta fin da subito uno spiccato interesse e un amore profondo per il mondo dei cavalli oggetto di oltre quattrocento immagini, tra disegni e tele, durante tutta la breve vita. Già le sue prime opere tutte dedicate agli stalloni, mostrano l’influenza degli antichi maestri copiati al Louvre: oltre allo stilema Neoclassico, per esprimere la forza e la vitalità dell’animale Géricault guarda alla potenza espressiva di Michelangelo, Tiziano, Poussin, Rubens e Rembrandt. Cavalli di qualsiasi razza, pezzatura e acconciatura, visti di fronte, di fianco, impennati, al trotto, o anche “Cavalli visti dalla groppa” (1811), confermano una passione che il giovane coltivava nella tenuta dello zio vicino a Versailles. 
Tra i molti studi sull’animale, in “Testa di un cavallo bianco”, Géricault coglie l’espressività della bestia, l’occhio trasparente e il muso illuminato dalla luce vibrante resa in pennellate larghe e liquide. L’artista compie una vera e propria indagine psicologica, come se fosse di fronte ad un "ritratto umano" e cercasse l'emozione dinamica e la profondità interiore, l’anima del suo soggetto.

Dopo i fregi del Partenone, dove Fidia ha fatto sfilare i suoi lunghi cortei di cavalieri, nessun artista ha saputo, come Géricault, rendere l’idea della perfezione equestre”
Théophile Gautier

Innalzando la figura di Géricault al pari del sommo scultore greco, il noto poeta e critico d’arte francese Théophile Gautier (1811-1872), voleva confermare la bravura eccelsa del nuovo “pittore dei cavalli”, capace fin da giovane di superare non solo il maestro Carle Vernet (1758-1836), esperto illustratore dell’animale, ma anche gli esiti di affermati maestri come David, Ingres e lo stesso, quasi coetaneo, Eugène Delacroix (1798-1863).
Ventunenne e infuocato dalle gesta eroiche di Napoleone, tipico sentimento romantico dei giovani artisti francesi di questi anni, nel 1812 Géricault partecipa al Salon la più importante competizione parigina. A detta di Clément, ispirato da un cavallo imbizzarrito, in appena tre settimane l’artista portava a termine una tela immensa di oltre tre metri per due: “Ufficiale dei cavalleggeri della Guardia Imperiale” (1812). Géricault aveva usato due personaggi come modelli, uno per il ritratto dell’ufficiale e un altro per il movimento acrobatico dell’uomo, scegliendo tra gli amici del corpo militare quelli più adatti. Per l’animale, invece, aveva affittato un cavallo da un vetturino e lo aveva studiato dal vero, meticolosamente, dalla muscolatura al manto. 

Il risultato fu sorprendente: “Ufficiale dei cavalleggeri” appare un dipinto ricco di tensione ed epica eroica, molto diverso da quelli che, negli stessi anni, venivano prodotti dagli artisti della corte di Napoleone

Tra questi e nella stessa occasione, Antoine-Jean Gros (1771–1835), proveniente dallo studio di David, aveva presentato “Ritratto equestre di Gioacchino Murat” (1812), una tela celebrativa dalla pittura nitida e priva di verità rispetto al modello sensuale e sfrontato di Géricault, anche da un punto di vista cromatico, chiaramente ispirato dal suo amato Rubens.    

L’esordio al Salon del giovane fu positivo, la critica si accorse delle sue straordinarie doti, il direttore del Louvre gli assegnò la Medaglia d’Oro, senza però acquistare l’opera, come di consuetudine 

Nel 1814, Géricault presenta al SalonCorazziere ferito che abbandona il campo di battaglia” (qui, anche lo studio del 1812); ispirato dall’ultima sconfitta di Napoleone a Lipsia (1813), in quell’anno l’Imperatore era già in esilio all’Elba, mentre aprivano le porte dell’esposizione per celebrare il ritorno di Luigi XVIII.  Il Salon del 1814, infatti, già non recepiva più messaggi napoleonici e la scena del soldato col suo cavallo che arranca fuori dal campo di battaglia, tra fumo e nuvole minacciose, risultava quantomeno anacronistica. 
Le molte critiche mosse al “Corazziere ferito”, anche formali e riguardanti le sproporzioni tra cavallo e cavalliere, toccarono profondamente il giovane che rinnegò la tela e passò qualche anno in veste di moschettiere nel reggimento di Luigi XVIII.
Per rinsaldare la sua ascesa al successo, nel 1816 decise di partecipare al Prix de Rome, che assegnava al vincitore un soggiorno studio presso l’Accademia di Francia in Italia. Non superò la prova e decise di partire ugualmente a sue spese, sia per misurarsi con la grande tradizione antica, sia per motivi sentimentali: la relazione impossibile e travagliata con la giovane Baronessa Alexandrine, moglie dello zio che a Versailles era stata anche amante del Re. Solo molti anni dopo la morte e dopo la biografia di Clément, si è saputo che Géricault aveva avuto un figlio dalla donna, Ippolito che non conoscerà mai. 

A Firenze Géricault rimane incantato dalle Tombe Medicee di Michelangelo, mentre a Roma si dedica allo studio dei maestri Michelangelo e Raffaello

Come Stendhal in Italia nello stesso periodo, l’artista è libero dal sottostare alle ferree leggi accademiche e può concedersi di scegliere i suoi soggetti prediletti: si appassiona alla vivace quotidianità romana, ai mercati e le feste ludiche popolari, di cui esalta la vitalità di una plebe antica, ricca di sentimenti forti. 
Ne “La corsa dei Bárberi” (1817), una scena con cavalli che si svolgeva nel tradizionale carnevale romano, una dozzina di semiselvaggi di razza nordafricana veniva liberata da Piazza del Popolo, verso l’attuale Piazza Venezia, lungo un tragitto che seguiva tutta Via del Corso. In sei mesi, Géricault fece diversi schizzi e disegni rispetto ai quali nell’opera finale scompariva ogni elemento aneddotico a favore di una composizione più semplice che esaltava la lotta dell’uomo con la natura selvaggia, un tema di ispirazione romantica. La scena si svolge sullo sfondo di una città antica senza tempo, alla Poussin. Qui, un gruppo di giovani palafrenieri dalle turgide muscolature ispirate a Michelangelo, trattengono i cavalli scalpitanti prima della partenza; oltre al debito michelangiolesco e ai bassorilievi antichi sono evidenti i riferimenti a Raffaello, nella posa del giovane in primo piano.

Nel 1817, Géricault tornava definitivamente a Parigi

Ancora instabile e depresso, l’artista decide di dedicarsi alla grafica sperimentando la nuova tecnica litografica, negli stessi anni dello spagnolo Francisco Goya (Goya, il primo incisore moderno). Attratto dalla sofferenza umana, dalla sconfitta e dalla tragedia, spicca nella sua produzione “Ritorno dalla Russia”, una scena dedicata ai soldati francesi, feriti e stremati che tornano dalla disastrosa campagna militare. 

Emerge ora nella sua produzione un crudo realismo in immagini di forte impatto emotivo e piena partecipazione verso soggetti tragici contemporanei

Nello stesso anno del viaggio a Roma che segna la maturità stilistica di Géricault, succede un altro episodio che incide fortemente nella sua vita privata e professionale, il naufragio della fregata Medusa.
Nel giugno del 1816 l’ammiraglia salpava dall’isola d’Aix, alla testa di una flotta diretta a Saint-Louis, in Senegal, dove una colonia caduta in mano agli inglesi durante le Guerre napoleoniche era stata appena restituita alla Francia. Della spedizione facevano parte quattrocento persone tra militari, funzionari civili con familiari e numerosi coloni. Il comando della nave fu affidato ad un vecchio capitano aristocratico, fedele da sempre alla Corona, che non navigava da oltre vent’anni. Nel corso della spedizione, per giungere quanto prima a destinazione, questi impose una veloce andatura e inoltre, privo di carte nautiche aggiornate e incurante dei suggerimenti degli ufficiali più esperti sbagliò rotta portando la Medusa ad arenarsi sulle secche al largo della Mauritania: era il 2 luglio. 
Due giorni dopo, fallito ogni tentativo di disincagliare la nave, fu presa la drammatica decisione di abbandonarla, benché fosse chiaro a chiunque che le scialuppe non sarebbero state sufficienti per tutti: solo duecentocinquanta s'imbarcarono, tra cui il capitano, la moglie e la figlia, gli alti ufficiali e alcuni notabili con famiglie e bagagli. 

I restanti centocinquanta passeggeri, tra marinai e militari, furono costretti a salire su una zattera di fortuna di venti metri per sette, costruita in fretta e furia con alcune travi

La zattera avrebbe dovuto essere trainata da una delle scialuppe fino alla costa africana, ma poco dopo l’inizio della navigazione le funi che la tenevano agganciata furono cinicamente recise e i suoi occupanti vennero abbandonati alla deriva nell’oceano aperto, in condizioni spaventose.

La zattera si trasformò in un inferno

La lotta continua per la sopravvivenza fu spietata: date le scarse provviste, le persone deboli, malate e ferite furono gettate in mare e al nono giorno i sopravvissuti, stremati dalla fame, si diedero al cannibalismo. Dopo tredici giorni, un pugno di superstiti venne tratto in salvo dal brigantino Argus, inviato dal capitano non già per soccorrere i naufraghi, ma per recuperare un forziere pieno d’oro che era stato lasciato nello scafo della Medusa

Dei quindici uomini rimasti in vita, cinque morirono poco dopo aver raggiunto la terraferma

Lo scandalo scoppiò il 13 settembre, quando un quotidiano critico verso la restaurata monarchia francese pubblicò la relazione dei sopravvissuti, l’ufficiale medico Henri Savigny e l’ingegnere geografo Alexandre Corréard, salito sulla zattera volontariamente per non abbandonare gli uomini che lavoravano con lui. L’eco della tragedia suscitò un’ondata di sdegno, pamphlet, opuscoli e incisioni rievocavano i drammatici eventi in ogni minimo dettaglio.

In quest’atmosfera carica d’indignazione Géricault, che da tempo ambiva a tornare al Salon, scelse il tema di scottante attualità e realizzò non un quadro di storia, ma di cronaca quotidiana: La zattera della Medusa

Lasciò la sua piccola bottega e si stabilì in un ampio atelier per dipingere la grande tela di sette metri per cinque. La sbalorditiva indagine sui corpi umani fu facilitata dalla vicinanza con l'Ospedale e l’obitorio, dove l’artista si recava a studiare malati e moribondi, oltre che cadaveri anatomici mozzati (Studio di arti amputati, 1818-1819; Studio preparatorio per teste tagliate, 1818-1819). 

Géricault mi permise di vedere La zattera della Medusa quando ancora ci stava lavorando. Fece una tremenda impressione su di me tanto che quando uscii dal suo studio cominciai a correre come un pazzo e non mi fermai finché non raggiunsi la mia stanza”
Eugène Delacroix

Per amore di verosimiglianza, Géricault incontrò personalmente Savigny e Corréard, che fece posare ed entrare nella tela finita, mentre commissionò al falegname superstite della Medusa un modellino della zattera per osservarne il moto ondoso in mare. Sempre per verità di cronaca, usò conoscenti ed amici che lo sostenevano, incluso Delacroix sul quale, alla fine, modellò il volto nell’uomo esanime in basso a sinistra. 
Infatti, in una serie di bozzetti preparatori, già caratterizzati da un realismo sconvolgente, questi non appare, così come, a lungo incerto sul momento da immortalare, dopo ripetute prove scelse di fissare sulla tela il primo avvistamento dell’Argus. Nei due bozzetti (Bozzetto per La zattera della Medusa, 1818) però, la nave all'orizzonte è presente, mentre nella scena finale scompare dietro un’onda, caricando così la scena già densa di pathos, anche di suspence.
Manifesto della pittura romantica intrisa di passione e tensione emotiva, tutta la composizione della Zattera, viene infatti costruita intorno a due diagonali che s’incrociano al centro: una diretta dall’uomo riverso in acqua, in basso a destra, fino alla vela gonfia d’aria, in alto a sinistra, l’altra, dall’anziano pensieroso, fino al nero che sventola lo straccio.  
L'amico e aiutante pittore Alphonse Montfort, descrisse la fase di stesura finale dell’opera con queste parole: 

Dipingeva direttamente sulla tela bianca, senza un disegno preliminare o preparazioni di sorta, ad eccezione dei contorti del quadro, e nonostante tutto la solidità del lavoro non ne risentì ... Sembrava procedere molto lentamente, quando in realtà lavorava veloce, piazzando una pennellata dopo l'altra al suo posto, dovendo di rado ritoccare il lavoro più di una volta”
Alphonse Montfort

Pur documentandosi dal vero per restituire il cromatismo dei corpi decomposti, Géricault escluse dalla grande composizione ogni elemento raccapricciante come il cannibalismo e si concentrò su proporzioni, torsioni e muscolature di derivazione michelangiolesca, proprie della grande statuaria antica e debitrici del soggiorno italiano da poco concluso. 
Variegate in un’ampia gamma di “affetti” tipicamente seicentesca, anche le espressioni dei diversi protagonisti che esprimono fiducia, delusione, rabbia, disperazione e apatia.
Il vecchio ed enigmatico anziano con il velo rosso che in primo piano sorregge un corpo, vicino all’esausto ritratto di Delacroix, è stato letto dagli storici come un rimando al cannibalismo del Conte Ugolino dell’Inferno dantesco, o come la classica Allegoria della Malinconia

Inalzando al rango della pittura di storia un episodio di cronaca che stava dividendo l’opinione pubblica della Francia, Géricault sperava di ottenere il tanto agognato riconoscimento ufficiale del Salon

E in effetti “La zattera della Medusa” non passo inosservata, ma all’esposizione del 1819 l’opera divise la critica, tra chi lodava l’impianto solido e il movimento della composizione, tra cui Luigi XVIII stesso e chi la stroncava a difesa della élite monarchica, infastidita dal tono di manifesto dei valori “universali umani”.

Anche l’uomo di colore al vertice della composizione che sventola il brandello di tela, fu letto come il sostegno del pittore all’abolizione della schiavitù 

Ritrattista eccelso di amici e personaggi del suo entourage colti nella vivida profondità dell’anima, gli ultimi ritratti di Géricault rappresentano un altro capitolo importante della sua opera tutta dedicata alla sofferenza straziante di un’umanità travolta da esperienze tragiche.
Ed è proprio la figura del "negro", così definita all’epoca, che emerge in molti ritratti come quello di “Mustapha” (1817-1819), soggetto catturato più volte, o anche “Studio per un ritratto di Joseph” (1818-1819). In particolare, Joseph, originario dalle colonie francesi dell'epoca, fu scoperto proprio dall’artista nel 1818; posò per lui nella “Zattera” e fino al 1865, fu modello per altri pittori, sia per il fisico atletico che evocava il mito ottocentesco del “selvaggio”, sia come eroe dell'antichità.

La tiepida accoglienza parigina della “Medusa” aveva gettato Géricault nello sconforto

L’artista si ritirò in campagna per riposare e si affidò alle cure di un medico fino a quando, ritrovate le forze, nel 1820 partì per Londra: qui finalmente, espose con successo “La Zattera”. 
Durante il soggiorno inglese, mentre lavorava con la litografia, realizza il celebre “Derby di Epsom” (1821); protagonista della composizione non sono i cavalli e l’evento sportivo, ma la grande massa di nubi che incombono sui fantini e i colori cupi del cielo che attestano la conoscenza degli studi dell’epoca di John Constable (John Constable, un naturalista romantico). Nel “Derby”, ma anche in altre opere della serie, Géricault cadde nell’errore di rappresentare i cavalli librati in aria con i quattro arti sospesi per imprimere velocità ai purosangue. Questo equivoco, ripetuto da tanti pittori prima di lui, fu superato con i primi studi di cronofotografia di Eadweard Muybridge (Animal Locomotion, 1887) che dimostravano come un cavallo al galoppo muove in un certo ordine gli arti, non staccando mai il suolo, se non nel salto all’ostacolo.

Tra le ultime opere, Géricault realizzò una serie di ritratti su soggetti affetti da crisi nervose e manie di persecuzione; dei dieci “Alienati” avvolti in un’aura di mistero, oggi ne sopravvivono cinque 

Durante le crisi depressive, Géricault aveva intrapreso la frequentazione di un medico, Étienne-Jean Georget, primario del manicomio di Salpêtrière, ospedale psichiatrico nel cuore di Parigi. 
Non sappiamo se iniziò la serie prima o dopo il soggiorno inglese e soprattutto, se furono commissionati da Georget come terapia finalizzata a sublimare il malessere, o se fossero invece documenti che andavano a corredo degli studi e delle lezioni del medico parigino. Senza dubbio, erano pazienti del dottore colpiti da Monomanie, ovvero deviazioni della personalità di carattere ossessivo. Tra i cinque oggi rimasti, spiccano le precise deviazioni di persone soggette a malesseri profondi (Alienata con monomania del gioco, 1822-1823; Alienata con monomania dell’invidia, 1819-1822; Alienato con monomania del furto, 1820-1823; Alienato con monomania del comando, 1821-1823; Alienato con monomania del rapimento di bambini)

Sguardi persi, espressioni intontite o diffidenti, lineamenti abbruttiti dal tempo o dall’incuria

Il realismo è intenso, scientifico e scalza ogni accento morboso o irrisorio per lasciare emergere un’accurata indagine dei moti dell’animo umano in una sorta di catalogazione fisiognomica ante litteram. “Gli Alienati” di Géricault conservano la propria dignità personale divenendo espressioni universali della patologia umana.

FOTO DI COPERTINA
Théodore Géricault, La zattera della Medusa, 1818-1819, olio su tela, 491x716 cm., Museo del Louvre, Parigi