Italia. Il paese del Sublime tra Sette e Ottocento

Una mostra storica del 2001

La storica mostra “Un paese incantato. Italia dipinta da Thomas Jones a Corot” (Grand Palais, Parigi; Palazzo Te, Mantova; 2001), la curatrice Anna Ottani Cavina asseriva con efficacia, attraverso una vagliata serie di centonovanta opere, che gli studi d'après nature iniziavano a fine Settecento proprio in Italia. 
Dal 1780, nel pieno affermarsi della stagione Neoclassica, quando il Grand tour italiano significava tuffarsi a capofitto nell'antichità di Roma, Ercolano, Pompei, Paestum, Segesta, fino al 1830, in pieno Romanticismo, gli artisti viaggiatori catturati dal sentimento per la luce mediterranea che avvolgeva i paesaggi italiani di memoria classica, iniziavano una sperimentazione tecnica e formale che porterà a un nuovo linguaggio moderno di sintesi ed immediatezza.  
Per l'ultima volta l'Italia offriva a questi moderni viandanti, per lo più francesi, inglesi e del nord Europa, il panorama necessario per la svolta epocale che, cinquant'anni dopo, porterà alla nascita della pittura impressionista en plein air.

Ad un certo punto i pittori non vanno più in Italia per vedere Roma e l’antichità, ma vanno per la bellezza del paese, del suo paesaggio
Pierre Rosenberg

Il filmato, girato da Nino Criscenti e introdotto dallo storico dell’arte francese Pierre Rosenberg, inizia con il racconto di Ottani Cavina sugli artisti francesi in Italia. 

È buona cosa dipingere lo stesso soggetto in diverse ore del giorno, per osservare la differenza delle forme prodotta dalla luce. I cambiamenti sono così sostanziali che non si riesce più a distinguere gli oggetti
Pierre-Henri de Valenciennes, 1799

Nel Seicento, il francese Claude Lorrain (1600–1682), attivo soprattutto a Roma, aveva avuto l'intuizione di dipingere la luce dorata, armoniosa e serena in una campagna di Tivoli cosparsa di piccole figure, pastori, animali e rovine antiche. 
Investito da un intenso sentimento per il reale, Lorrain diveniva il padre dei paesaggisti riscattando il genere pittorico dal mero utilizzo di fondale
L'artista penetrava il paesaggio nell'attimo, ora, stagione e luogo preciso, allontanandosi dalle atmosfere cristallizzate di "ideale classico" dipinte dal coetaneo Nicolas Poussin (1594–1665). Lorrain stava sdraiato sui campi per intere giornate ad attendere tramonti e albe, un'immersione, un contatto fisico e sensoriale che farà scrivere a Giuliano Briganti di "paesaggi vissuti", anche se abitati dal mito. 
Più di un secolo dopo, i paesaggisti viaggiatori mossi dalla fede illuminista come Pierre-Henri de Valenciennes (1750–1819), o dal sentimento rousseauiano come Jean-Antoine Constantin, detto Constantin (1756–1844), davano le spalle all'accademia borghese per calarsi dentro a una natura vissuta e sondata nel profondo specchio dell'anima. Era cambiato un atteggiamento e con esso gli strumenti a corredo di molti paesaggisti neoclassici di fine Settecento.
Generalmente contenuto in una scatoletta portatile, con le “miroir de Claude” ereditato dal padre francese, i pittori di paesaggio volgevano la schiena al panorama e ne osservavano l'immagine riflessa. Lo specchio convesso, tinto di nero, rendeva più gestibile in un piccolo formato la dimensione dell'ampio scenario naturale. La visione appariva ammorbidita, le distanze e i contorni appiattiti, ma tutto ugualmente a fuoco. 

Qualcosa mi ha colpito più di tutto … voglio parlarvi della bellezza della natura 
Léon Cogniet, lettera a Guérin, 1818

Artista non trainante, ma esemplare per la testimonianza, Léon Cogniet (1794-1880), cresciuto nel culto della razionalità davidiana, andava ospite dell'Accademia di Francia a Roma (1817-1822) con il preciso intento di educarsi alla pittura di storia. Ciò nonostante, arrivato in Italia, scriveva queste parole al maestro Guérin. “Autoritratto nella propria stanza a Villa Medici” (1817), presenta l'interno un po' bohèmienne di un artista che aveva appeso al muro gli attrezzi del pittore di storia, l'elmo e lo scudo, sicuramente serviti per vincere il Prix de Rome che lo aveva catapultato a Roma. Qui, il paesaggio è visibile oltre la finestra, elemento nobile della pittura che, in questo caso, apre nella campagna romana e nella luce pomeridiana reale di un tramonto. 

Per la maggior parte educati ai dettami neoclassici di ordine, calma e chiarezza, impartiti dall'indiscusso maestro David, per questi pittori dipingere dal vero portava a scoprire mille varianti e a scalzare l'idea di una natura razionale a favore di sentimenti sovversivi più intimi

L'uso assolutamente non convenzionale dell'olio su carta, tecnica adottata dalla maggior parte degli artisti francesi, permetteva un'asciugatura più veloce, favoriva una maggiore precisione nel cogliere le atmosfere, ma soprattutto, come il caso dei paesaggi di Cogniet e François-Marius Granet (1775–1849), questi studi dimostrano che stava cambiando il sentimento e dunque, la percezione visiva dei luoghi. Gli esiti raggiunti sono estremamente moderni, gli effetti di sintesi della luce creano campiture pittoriche e geometrie che strutturano l'immagine e come nota Cavina, tutto ciò fa sì che il paesaggio risulti monumentale, pur essendo di piccolo formato.
Anche quando il soggetto è il cielo, come nelle opere di Constantin, artista di Aix-en-Provence e maestro di Granet, gli strabilianti effetti meteorologici articolano la superficie in macchie quasi astratte, esse stesse soggetto dei piccoli studi en plein air.
Questi schizzi su carta scaturiti da sedute all'aperto, non avevano ancora autonomia artistica, servivano al pittore come memoria e spesso, venivano elaborati successivamente nello studio in occasione di una commissione. Di Louis Gauffier (1762–1801), arrivato per la prima volta a Roma nel 1784 e poi rimasto in Italia, è stato recuperato il processo artistico con una sequenza di disegni, bozzetti e studi en plein air, che costituiscono la genesi del dipinto finale. In “La valle dell'Arno vista dal Paradisino di Vallombrosa”, Gauffier inserisce i committenti in primo piano sullo sfondo di un tramonto d'après nature
Il "David del paesaggio" così era chiamato Valenciennes (1750–1819), a Roma la prima volta nel 1769, è oggi celebrato anche come sottile teorico per un trattato sul paesaggio (Élémens de perspective pratique, à l’usage des artistes, suivis de Réflexions et conseils à un élève sur la peinture, et particulièrement sur le genre du paysage, Parigi, 1800), che il giovane Corot avrà in valigia quando arriva in Italia. A ragione, Valenciennes è considerato il precursore del paesaggio moderno: “Tetti di Roma all'ombra” e “Tetti di Roma al sole”, sono opere dipinte a diverse ore del giorno dove le ombre colorate anticipano una prassi dell’Impressionismo.

Ho un solo scopo nella vita che voglio perseguire con costanza: fare paesaggi
Camille Corot, 1825

L'opera di Jean-Baptiste Camille Corot (1796–1875), si iscrive nella fortunata stagione del paesaggio francese ottocentesco. Corot decide di diventare pittore dopo aver visto al Salon del 1824, la freschezza e la brillantezza di “Carro del fieno” dell'inglese John Constable (1776-1837). L'artista parigino partiva per Roma nel 1825 e in Italia, affiancherà per tre anni i paesaggisti neoclassici che lo indirizzano all'en plein air, un bagaglio sostanzioso per Corot che, nel 1830, approderà alla “Scuola di Barbizon”. Ammiratore dell'arte antica, le sue vedute di Roma, l'Isola Tiberina, il Colosseo, i Giardini Farnese, così come i suoi paesaggi della campagna umbra, sono costruiti su geometrie cromatiche e rigorose tarsie pittoriche che esaltano i piccoli e preziosi formati. All'epoca, questi lavori sono ancora considerati “bozzetti” per l'approccio diretto al reale, le pennellate dense, la freschezza della tavolozza, la resa di fugaci effetti luminosi, i punti di vista inediti e un'economia di mezzi espressivi antiaccademica. 
Corot dipingerà tutto ciò per molti anni senza osare esporre, o meglio, al rientro a Parigi, partecipava annualmente all'esposizione del Salon, inviando paesaggi arcadici cosparsi di figurine, dalle tinte tenui e le atmosfere rarefatte, come nelle vedute di Poussin. Il doppio registro dell'artista, da una parte la modernità degli studi d'après nature, dall'altra il classicismo dei Salon, durerà almeno fino alla metà dell'Ottocento quando, all'Esposizione Universale (1855), l'acquisto di un suo quadro da parte di Napoleone III inizia a far parlare di lui. 
Solo nel Salon del 1859 Corot presenta i capolavori giovanili: il terreno era pronto Oltre a vantare un folto gruppo di collezionisti e intenditori, a queste date l'artista aveva una schiera di allievi, tra cui Camille Pissarro e la nuova generazione Impressionista, per i quali sarà “Père Corot”.

Attraversando per la prima volta queste terre bellissime, era come era come se ogni scena mi fosse già apparsa in sogno. Sembrava un paese incantato
Thomas Jones, 1777


Mentre gli artisti francesi nei primi anni dell'Ottocento metteranno in crisi l'apparato storico Neoclassico di fine Settecento, saranno gli inglesi i più diretti e audaci sperimentatori di paesaggi. La moderna pittura paesaggista inizia proprio in Inghilterra con piccoli studi e bozzetti d'après nature resi con monumentalità e freschezza e culminerà nelle visioni vorticose e quasi astratte di William Turner (1775–1851) negli anni Quaranta dell'Ottocento. 
Nelle vivaci discussioni inglesi dell’epoca, infatti, alternative al Bello Ideale winckelmanniano, trovano spazio le nuove categorie estetiche di “Sublime” e “Pittoresco” che gli artisti maturano sulla lezione di Lorrain. Del maestro seicentesco, Thomas Gainsborough (1727–1788) adottava per primo il “Claude glass”, per inquadrare e contenere ampi spazi dentro una piccola cornice.
Nell'Inghilterra di questi artisti il primo e più evidente carattere culturale del tempo è lo "scientismo" promosso da saggi filosofici e trattati naturalistici dove, l'osservazione diretta del vero portava al superamento delle categorie metafisiche a favore di nuovi orizzonti come la chimica, la biologia e le scienze psicologiche. Il Sublime di Edmund Burke (Un'indagine filosofica sull'origine delle nostre idee di Sublime e Bello, 1757), inciterà l'artista ad interrogare l'anima e a restituire emozioni forti e drammatiche che Turner porterà all'estremo. Il carattere Pittoresco, invece, concetto all'epoca applicato ai numerosi studi sui "giardini all'inglese", era soggetto di un poema didattico dell'archeologo Richard Payne Knight (The Landscape, 1794):

Il poema metteva in risalto come nella composizione paesaggistica diventava importante "l’antica rovina, il cottage isolato, la grande quercia, l’aspra roccia e il limpido ruscello", quali elementi di fascinazione e soprattutto, "impressione sugli organi di senso"

Thomas Jones (1742–1803), di origine gallese, dopo un soggiorno a Roma (1776-‘78), era vissuto a Napoli per circa cinque anni (1778-'83). Qui, aveva familiarizzato con artisti conterranei, quali Jacob More (1740–1783), Francis Towne (1739-1816) e John Robert Cozens (1752-1797). Malgrado la diversità di tecniche e vedute, questi pittori avevano la stessa visione moderna della natura, registravano abilmente rami e fronde, boschi e radici aggrovigliate dietro muri screpolati e ciò, grazie alla tradizione inglese dell'acquerello, tecnica di veloce stesura, dai risultati essenziali. 
Di Jones, rimangono memorabili gli acquerelli trasparenti in cui sviluppa una particolare tavolozza di sfumature variabili del blu, di Towne, i toni raffinati delle tinte profonde del bruno, viola e marrone. E mentre Towne favoriva un processo lento e meditato, registrato anche in diario meticoloso, che trova eco nelle iscrizioni sul retro dei suoi disegni, Jones in una accelerazione di pensiero, introduceva il "flying sketches", categoria rivoluzionaria ad indicare gli studi dal vero eseguiti "al volo", mentre era in cammino con amici. 
Piccoli formati anche gli oli su carta di Jones, inquadrature dai tagli minimali, messa a fuoco ravvicinata su muri, tetti, camini, imposte chiuse, niente che potesse evocare nelle case inglesi, un Sublime e spettacolare “Vesuvio in Eruzione” (1776-'80), dipinto in quegli anni da Wright of Derby (1734-1797). 

Nel capolavoro di Jones, “Un muro a Napoli”, soggetto è il tufo, i panni stesi, la macchia d'acqua e il tutto, dentro una geometria cromatica degna del futuro Corot

Questi lavori privi di acquirenti e soprattutto precedenti, perché troppo antimonumentali, tardano di molti anni la fama dell'artista. Jones dovrà attendere ancora un secolo e la sua autobiografia, “Memoirs of Thomas Jones of Penkerrig”, rimarrà inedita fino al 1951. Jones visse nella solitudine del genio, tornò nel Galles per nostalgia, irrequietezza e senza denaro. Scrisse in seguito di essere nato in un tempo sbagliato.

Robert Cozens, il più grande genio che abbia mai trattato il paesaggio"… “Cozens è solo poesia"
John Constable

Robert Cozens (1752–1797), nato a Londra, figlio del disegnatore e acquarellista russo, Alexander Cozens, fu l'anticipatore dello spirito Romantico, non a caso, ammiratissimo per i suoi acquerelli dai giovani Constable e Turner. Di salute precaria, Cozens testimoniava la piccolezza dell’uomo di fronte alla natura dipingendo la sua malinconia e quel senso del dramma rintracciabile nel Sublime di Burke; questo sentimento investiva la sua breve vita dedicata a composizioni mai eccessive e di sottile equilibrio instabile. Nel 1776, l'artista iniziava il Grand Tour, attraversando l'Italia da Bressanone a Bolzano e poi giù verso Roma. Qui, immortalava “Villa d’Este”, “Villa Madama”, “Villa Lante” e il “Lago di Albano”, con uno stile compositivo di grande naturalezza, catturando il paesaggio assieme al sentire vero e palpabile dell'emozione scaturita dall'attenta indagine.

Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi dai alla luce ciò che hai visto durante la notte, affinché la tua visione agisca su altri esseri dall’esterno verso l’interno
Caspar David Friedrich

Con queste parole, il paesaggista romantico tedesco Caspar David Friedrich (1774–1840), incitava l'artista a trovare l’origine dei maestosi scenari infiniti e un po' cupi, nel profondo dell'anima. Il “Paesaggio dell'anima” caratterizza la tradizione nordica ottocentesca fortemente ispirata dalla cultura dello Sturm und Drang, movimento sorto in Germania nella seconda metà del Settecento che anticiperà lo spirito Romantico. 
Tuttavia, gli artisti tedeschi, danesi, svedesi, belgi e scandinavi, che scendevano in Italia per il Grand Tour, diretti soprattutto al sud, scoprivano nella patria della classicità la luce mediterranea di paesaggi solari catturati in piccoli bozzetti d'après nature, con toni per lo più intimi e sentimentali, ma in nessun caso drammatici alla maniera del genio solitario di Friedrich.
Lo svedese Gustav Palm (1810–1890), uno degli ultimi paesaggisti che scende a Roma solo nel 1840, non rinuncia allo studio di una Villa Borghese solare, con pini marittimi e cipressi, catturata di getto in un piccolo olio su carta. 

Questi artisti stringono rapporti fra loro, mangiano alla stessa osteria, si ritrovano sui luoghi e scambiano opinioni nella mescolanza di temperamenti, stili e nazionalità

Alcuni di loro non faranno più ritorno; è il caso di Franz Ludwig Catel (1778–1856), berlinese, stabilito a Roma nel 1811, documentato negli archivi come Francesco Catelli e sepolto a Santa Maria del Popolo. Catel, arriva in Italia con fama di illustratore già consolidata in patria, aveva disegnato per pubblicazioni importanti di Goethe, aveva dipinto nel castello di Carlo Augusto di Sassonia a Weimar ed era stato accolto con un quadro di storia a membro ordinario dell'Accademia d'Arte di Berlino. A Roma, entra immediatamente nella vita culturale e mondana, accresce successo e notorietà grazie a doti versatili tipiche dell'artista illuminista, capace di assecondare toni sentimentali e preromantici, mai del tutto scevri da ricorrenze classiche. Nell’Urbe, infatti, Catel frequenta i Nazareni (I Nazareni a Roma), pittori romantici tedeschi e nello stesso tempo, collabora con lo scultore neoclassico Thorvaldsen. Nel 1812, compie il primo viaggio verso sud, presto fonte di ispirazione primaria. Visita Pompei e il Teatro greco di Taormina, testimoniando il cammino con disegni e una produzione di vedute molto ambite da una clientela di altissimo livello che gli garantisce agiatezza economica. Un benessere visibile in “Balcone a Napoli” (1824), quadro finito di un interno borghese dove spicca l'effetto di una luce solare studiata d'après nature. Peculiare di Catel, l'inquadratura composta dentro motivi naturali e architettonici, in questo caso, la finestra che diventa pretesto per un controluce tra il primo piano oscuro e il chiarore del paesaggio esterno. Esaltante, l'aneddoto quotidiano del cane al balcone che guarda la strada. 
Nel 1820, Catel aveva incontrato il pittore norvegese Christian Dahl (1788–1857), con il quale condivide gli studi all'aperto nel Golfo di Napoli e ne subisce l’influenza romantica. Dahl, infatti, a Dresda aveva conosciuto Friedrich diventandone un intimo amico, malgrado i quattordici anni di differenza fra i due. Friedrich, già affermato, trovò nel giovane il compagno ideale per lunghi viaggi dentro le selvagge foreste del nord. Stimolato dal genio romantico, Dahl assorbe la potente e sottile tensione tra natura e umano, un sentimento che porta con sé in Italia e in particolare, nel soggiorno partenopeo che dura circa un anno (1820-'21), quando scappa in preda a nostalgia per la giovane moglie. Nel sud, Dahl affranca lo studio sul colore e gli effetti luminosi girando per Pozzuoli, Castellammare, Pompei, Posillipo e Capri, esperienze rilevanti ed esaltanti come quella che lo vede accorrere per lo spettacolo naturale dell'eruzione del Vesuvio, tra i primi a risalire le pendici e sfidare da vicino il grande cratere.
Allievo di Dahl, anche il norvegese Thomas Fearnley (1802–1842) si avvicinò all'arte di Friedrich prima di arrivare in Italia (1833-'35). In “Terrazza con quercia a Sorrento”, restituisce una luce sbiancata evocante le atmosfere boreali del nord. La piccola tela, una composizione raffinatissima e finemente colorata, mostra il talento di un paesaggista già romantico che di lì a poco, in Inghilterra, conoscerà Turner e Constable.

In questo paese non si può che dipingere il paesaggio
Christoffer Wilhelm Eckersberg

Sono paesaggi silenziosi, meditativi e di tradizione nordica, quadri molto pensati quelli dei danesi Christoffer Wilhelm Eckersberg (1783-1853) e Carl Christian Hansen, (1804-1880). Eckersberg, a Roma nel 1813, grande amico dello scultore Thorvaldsen, si era formano nell'atelier parigino di David, mentre nei ritratti guardava con ammirazione ad Ingres. Nelle vedute di paesaggio romane, invece, Eckersberg costruiva racconti sintetici, in una quotidianità mai aneddotica come in “La Fontana dell'Acqua Acetosa” (1814), dove ombre e oggetti sono composti in punta di pennello dentro una struttura geometrica saldissima e di grande potenza visiva.
Hansen, formato in architettura all'Accademia di Copenaghen (1825-33), quando giunge a Roma (1835-'43) è attratto soprattutto da vedute di edifici storici e antichità romane. Villa Albani, il Tempio di Vesta, l'Arco di Tito, sono restituiti con un senso preciso della luce chiara che evidenzia forme misurate e mai inquadrate frontalmente.

Rai Cultura ringrazia Land Comunicazioni per la gentile cessione del filmato

FOTO DI COPERTINA
Christian Dahl, Eruzione del Vesuvio, 1821